Gli insegnamenti di un amico

 

di Gerardo Vacana
Letteratura & Società, n.17-18 / 2004

 

Il suo nome l’ho sentito per la prima volta a Lione dal professore Charles Saint-Etienne del Liceo ‘Ampère’, che, come tutti gli italianisants francesi, era un profondo conoscitore non solo della nostra lingua e della nostra letteratura, ma anche delle nostre regioni, visitate e rivisitate a turno durante le vacanze. Nello stesso liceo, al centro della città, (e in quello più periferico “del Parco”) ero approdato il I ottobre 1953, in qualità di assistente di italiano. Ebbene, Saint-Etienne a quella data aveva già dotato la biblioteca del suo liceo del libro di Piromalli La cultura a Ferrara al tempo di Ludovico Ariosto, uscito da pochi mesi, e al nostro primo incontro me ne parlò con molto favore, illustrandone succintamente il contenuto. Educato al metodo critico del mio Maestro Attilio Momigliano, fondato quasi esclusivamente sull’analisi della poesia, quel portare l’attenzione, da parte di Piromalli, sul contesto storico, sociale e culturale mi parve subito un’importante novità, che in seguito non avrei più dimenticato. Tornato in Italia e stabilitomi definitivamente in Val di Comino, mi recai ad ascoltare qualche sua lezione, quando era ancora incaricato di letteratura italiana all’università di Cassino. Ma i miei impegni di preside e la mia attività politica non mi consentirono di profittare come avrei voluto di quel primo tempo del suo magistero in Ciociaria, dove tornò da titolare, dopo la parentesi salernitana.

Solo agli inizi degli anni Ottanta fummo presentati dal comune amico Giorgio Bàrberi Squarotti, che volle la sua presenza come relatore nei convegni da me organizzati su Domenico Santoro (1983), autore di uno studio molto approfondito su Pietro Paolo Parzanese, e su Libero De Libero, nel 1985. Le relazioni, come gli altri suoi saggi, che venivo leggendo, si distinguevano per la coerente applicazione di un metodo storico arricchito e aggiornato dalla riflessione sui testi, soprattutto, di Gramsci, Galvano Della Volpe ed Ernesto De Martino. Dal primo doveva derivare l’idea di una letteratura legata alla società e impegnata a trasformare la realtà, nonchè l’attenzione alla cultura popolare e alle sue varie espressioni; dal secondo l’idea di una critica filologica -semantica che tenesse conto, nell’esame della poesia, dell’esperienza e della storicità, ma anche della sua specificità. Le sue indagini rivelano molta attenzione anche agli studi etnologici di De Martino, di cui condivideva, inoltre, l’impegno per il riscatto del mondo popolare del nostro Sud. Il convegno su Santoro fu l’occasione per fargli conoscere anche la mia poesia. Letto il Il nonno, già publicato sulla rivista «Lunarionuovo», volle premettere uno scritto all’edizione in volume (Sora, 1985), in cui ascrive il protagonista all’epica popolare. Nacque in quegli anni un’amicizia destinata a rimanere intatta fino alla sua scomparsa, fondata su talune affinità di carattere e di idee e sulla scoperta di antiche, comuni esperienze (entrambi eravamo stati il 18 aprile 1948 dalla parte del fronte popolare e credevamo fermamente nei valori della Resistenza, anche se la mia scelta futura fu per il riformismo, verso cui egli nutriva, invece, una tenace diffidenza; entrambi propugnavamo una letteratura che non ignorasse i problemi della società, e un linguaggio poetico più vicino alla vita).

Tra i numerosi segni della sua amicizia ricordo la prefazione al volumetto Taccuino greco e altri versi (1989) e la presentazione, nello stesso anno, ad Arpino, delle Variazioni sul reale (il testo è ancora inedito tra le mie carte). In quell’occasione si fece accompagnare dal Rettore dell’Università di Cassino, Piergiorgio Parroni, col quale divenimmo subito amici. Mi recensì anche in una di quelle sue celebri Lettere vanitose, che, insieme ai versi satirici, sono una testimonianza della sua vivace partecipazione al dibattito politico e culturale e ne fanno, sulla scia del Carducci e del Russo (anche per la passionalità ideologica), uno dei più accesi e coraggiosi polemisti del Novecento.

Sempre pronto ad affiancare ogni mia iniziativa culturale, accettò di presentare insieme a me un volume di racconti dello scrittore di Rocca d’Arce Italo Colafrancesco, prematuramente scomparso e autore, con Signora Padrona, di un romanzo storico molto interessante sui primi anni del fascismo in Ciociaria. Mi teneva informato delle sue novità e mi mandava copia dei numerosi articoli che pubblicava su questa o quella rivista. Vedermi recapitare quelle sue lettere imbottite di ritagli fino all’inverosimile era una vera gioia, che mi riconciliava con le patrie poste per la puntualità degli arrivi, malgrado un’affrancatura chiaramente approssimativa. Si trattava spesso di profili di amici e colleghi conosciuti durante la giovinezza e la maturità, che gli offrivano l’occasione per rievocare le varie tappe della sua vita, intrecciata agli avvenimenti più significativi del secolo. Erano scritti molto incisivi, dallo stile duttile e vigoroso, costellato di efficaci sprezzature ed invenzioni verbali. Avendo percorso per intero la carriera scolastica (da professore a preside, a ispettore centrale, a docente universitario), conosceva e ricordava con affetto e grande stima anche i colleghi della secondaria, che non guardava con sussiego, come capita purtroppo a molti cattedratici.

Quando, già anziano e malato, fondò la rivista «Letteratura & Società», dando prova della sua eccezionale operosità e capacità organizzativa, mi contattò per affidarmi una rubrica sui problemi della scuola; al mio garbato rifiuto, originato dalla riluttanza a un impegno fisso, sia pure a lunga scadenza, mi propose di collaborare su qualsiasi argomento. E anche questa seconda proposta è rimasta più o meno insoddisfatta, per i miei troppi impegni e una naturale stanchezza o pigrizia. A una cosa, però, mi scrisse di tenere in modo particolare: la rievocazione sulla rivista degli amici dei miei anni universitari a Firenze: La Penna, Baldacci... Glielo promisi e chissà che prima o poi non possa mantenere l’impegno. Alle sue molte prove d’amicizia, da parte mia ho potuto corrispondere con ben poco (una recensione al volume di poesie Ti estraggo dai tifoni, una nota per La ragazza del Polesine). Ma la prova forse maggiore del mio affetto gli rimase segreta e la rivelo ora per la prima volta: fui io a suggerire all’amico Lev Verscinin, più volte mio ospite a Gallinaro, negli anni 1988-94, di tradurre e far pubblicare in Russia l’ampia scelta delle sue poesie Sirio danza tra le nubi. E per maggiore gioia dell’autore, a pubblicare il libro fu la Casa editrice Operaio moscovita, fondata da Lenin nel 1922 e lasciata in vita, grazie al prestigio e all’importanza storica, anche dopo la caduta del regime sovietico.

Il nostro ultimo incontro è avvenuto a Fondi il 9 febbraio 2003, in occasione del premio ‘Libero De Libero’. Egli mi parlò ancora una volta, come sempre con ammirazione, affetto e rimpianto, di Ruggero Jacobbi, la cui scoperta dovevo proprio a lui, rivelandomi, tra l’altro, il particolare della sua origine pugliese (il che spiega ai nostri occhi la sua forma mentis di critico nutrito, come pochi, di pensiero filosofico). La sua puntuale risposta ai miei auguri poetici per la Pasqua fu l’ultimo nostro contatto anche epistolare.

Del molto che mi resta del suo insegnamento, voglio sottolineare almeno un aspetto: l’incoraggiamento, tramite la sua concreta operosità di critico, a studiare la letteratura della mia regione (cui, aggiungo, egli aveva dato un notevole contributo personale). Coerente e, direi, conseguente a questo aspetto, è l’incoraggiamento, sempre tramite il suo esempio, a collaborare, senza atteggiamenti snobistici e schifiltosi, a iniziative editoriali, giornali e riviste nate in provincia, anch’esse insostituibili e preziosi strumenti ed espressioni di autentica cultura.

 

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