"Antonio Piromalli, un calabrese siciliano"

 

 

La propria identità non è condizionata dal luogo in cui si nasce, ma da quello in cui si formano e si sviluppano soprattutto adolescenza e giovinezza. Per la gioventù scolastica l’esame di maturità, classica, scientifica o tecnica che sia, costituisce l’ultima prova della personalità potenziale del prossimo uomo. Così, almeno ai tempi miei quando la licenza liceale era un ostacolo da superare col massimo impegno. La nostra cultura generale era tutta lì, l’eventuale proseguimento universitario limitandosi a fornire la metodologia per approfondire e utilizzare quanto si era appreso. Concorreva alla funzionalità dello sviluppo il vituperato criterio nozionistico, per intenderci delle date e delle poesie imparate a memoria, perché esercitava e favoriva la ginnastica della mente.

Antonio Piromalli, personaggio eminente della cultura italiana, critico letterario, poeta, docente e accademico universitario, di spiccata e profonda sensibilità umana, nacque nel 1920 a Maropati (Reggio Calabria). Lo si può pertanto classificare come calabrese? Eppure egli all’età di quattro anni fu trasferito a Messina presso lo zio Biagio Seminara che abitava nel quartiere militare degli Orti della Maddalena. Lì trascorse la sua infanzia, tra le elementari e i giochi con i suoi coetanei, affrontando con prodezza infantile il percorso di guerra in cui si esercitavano le reclute e giocando a pallone nella piazzetta. Si trasferì quindi alla Valle degli Angeli e frequentò il ginnasio inferiore in una succursale del “Maurolico”, prestigioso istituto della città. Con l’aiuto di docenti competenti e severi ebbe modo di acquisire ottime basi in latino e nelle materie letterarie, mentre ostentò una viscerale antipatia per la matematica, nonostante fosse insegnata da una professoressa “affascinante per bellezza giovanile e per sorriso siciliano, specchio di una razza antica”. Egli si schierava insomma con l’estetica, piuttosto che con la scienza.

Il passaggio al Liceo, finalmente nella sede centrale del “Maurolico”, corrispose con un altro cambiamento di rione nella città. La famiglia si trasferì alla Giostra sulla via Palermo, strada in salita, costellata dalle rivendite dello stoccafisso a mollo, detto piscistoccu, allora assai più numerose delle macellerie. E fu nell’isolato 468, lo stesso da me abitato, che io lo incontrai e lo conobbi. Sebbene fosse solo due anni più anziano di me, subito fu mio maestro. Molti dei suoi consigli e insegnamenti fanno parte del mio bagaglio; a lui devo il mio amore per i lirici greci, insieme con il mio interesse per il futurismo e l’ermetismo. Io, nato a Messina, ai piedi del Faro di San Raineri nella falce di terra posta dalla natura a protezione della città, me ne ero allontanato in tenera età, per ritornarvi due anni prima che conoscessi Piromalli. Risultavo perciò assai più outsider di lui e lui assai più messinese di me. Posso dire che gli debbo la mia introduzione nella città di cui aveva assimilato costumi e mentalità, e per di più nutrito apprezzamenti per l’ambiente messinese da lui definito “milieu di poesia moderna”. Erano gli Anni Trenta e Messina viveva un periodo di singolare vivacità culturale. Enrico Fulchignoni prendeva parte determinante al rinnovamento della scena italiana con esempi concreti (la messinscena de La piccola città di Thorton Wilder); numerosi giovani tra i quali Francesco Tropeano messinese di Calabria, Alfredo Orecchio e Heros Cuzari esprimevano in poesia il male di vivere. Erano maestri universitari V.E. Alfieri, Galvano Della Volpe, Ugo Spirito, Piero Pieri, Michele Catalano e molti altri insigni accademici. Salvatore Pugliatti, personalità dominante, dava vita a cenacoli, convegni, dibattiti in tutti i campi dalla letteratura all’arte al cinema alla musica. Insieme con Quasimodo e La Pira aveva costituito un sodalizio divenuto un punto di riferimento per tutti, anche perché animato della dialettica interna di opinioni contrastanti.

Quella che fu mia esperienza personale e mia testimonianza, è documentata dallo stesso Piromalli in parecchi suoi scritti, tra cui Maestri e compagni di Messina, Pagine siciliane… Dante Cerilli, che è stato suo fedele e meritevole allievo all’Università di Cassino, ha appena licenziato un ampio ed esauriente saggio dal titolo Piromalli e la Sicilia – Biografismo, luoghi e metodi di letteratura.

Per quanto mi riguarda debbo ribadire che Piromalli mi insegnò ad essere messinese, anche in quegli aspetti che sembrano minimi ma che hanno, nella memoria, un significato importante. Egli mi iniziò per esempio a quelle lunghe conversazioni peripatetiche sulla Circonvallazione a Monte da cui si dominava il grande Fiume misterioso dello Stretto, particolarmente scintillante nelle notti di luna. Conversavamo con quella oziosità che tuttavia alimenta lo spirito; passeggiavamo nella scia del profumo del gelsomino di Arabia che i ragazzi offrivano alle fanciulle in bouquet detti “sponse”.

Antonio Piromalli ebbe a Messina anche il suo primo amore. La ragazza si chiamava Diomira, “era bella – egli ha scritto –, serena, aperta ai sogni modesti dell’Italia del tempo”; abitava al Quartiere Lombardo vicino al Ponte Americano. “Non uscivamo mai soli – egli avverte – L’amore era allora contrassegnato da pudori, trasporti, simboli”. Diomira morì prematuramente; il lutto rese duraturo l’amore, anzi, come si suol dire, “eterno”.

A Messina dunque Antonio deve l’infanzia, la scuola, gli studi personali su Croce, sulla poesia moderna, e persino il primo amore: tutti elementi che incidono sulla identità di una persona.

Nel 1937 egli diede, a settembre, gli esami di maturità, senza aver frequentato la terza liceale, come consentito a chi avesse concluso la seconda con la media dell’otto. Era perciò giunto a quel traguardo che ho definito determinante ed estremo per la formazione dell’identità. I suoi studi universitari li fece a Catania; poiché la Facoltà di Lettere mancava a Messina e alla Scuola Normale di Pisa dove insegnava Luigi Russo, un siciliano.

La mia esposizione circa la “sicilianità” storica di Antonio Piromalli finisce qui. Scoppiò la guerra: andò sotto le armi, compagni, tra gli altri, Oscar Luigi Scalfaro e Rosario Assunto il nisseno filosofo del giardino assai più vicino a lui per sensibilità e cultura; non smise mai di studiare e di trasmettere agli altri la sua esperienza messinese dove aveva avuto la opportunità di mettere a continuo confronto la classicità con la modernità. A guerra finita insegnò in scuole e in università italiane, viaggiò e soggiornò anche all’estero, fu alto funzionario del Ministero della Pubblica Istruzione.

Nei suoi numerosi scritti critici si nota una certa predilezione per gli autori calabresi, forse per farsi assolvere del suo “esilio”, messinese…

Particolare fu, a mio avviso, il suo soggiorno a Ferrara, dove egli compose un poemetto d’amore in prosa. Lo aveva ispirato una fanciulla “seduta sul sellino della bicicletta, le mani appoggiate al manubrio… Il sole rendeva d’oro i capelli… Gli zigomi alti contornati da lievissime efelidi… Originalissima la bocca… quadrangolare”. Nonostante egli la collochi in un ambiente reale con riferimenti precisi ispirati tuttavia anche a reminescenze storiche e letterarie della antica corte degli Estensi, e nel tempo stesso con analogie che richiamano il personaggio enigmatico di Micol del giardino dei Finzi Contini, il lettore ha la sensazione che l’avvertito critico letterario abbia ceduto a un incantamento. La ragazza di Ferrara – così si intitola la sua composizione – della quale non conobbe mai il nome ma che chiama Zoia è forse la stessa ragazza del Ponte Americano, Diomira, conosciuta a Messina. Entrambe sono irraggiungibili; ma Zoia entra nei suoi sogni e gli rivela di averlo sempre assistito soprattutto nei momenti più critici, angelo custode dell’amore. Credo di avere avuto così conferma del suo animo “dolce e gentile”, del suo pudore e della sua disponibilità visionaria propria della gente dello Stretto dove ha dimora la Fata Morgana che rende visibili i sogni e i desideri.

La ragazza di Ferrara intensificò le sue visite quando Antonio, provato da un infarto, “in un’estasi di spossatezza” mentre era in ospedale, cedette alla suggestione. Da allora la sua vita fu a rischio; ma egli si comportò assennatamente e responsabilmente. Osservò i consigli dei medici, si sottopose a continui controlli che lo mettevano a calcolato riparo. Quando nel giugno del 2003 si recò a Maropati, suo luogo natale, benché prevedibile, inaspettata tuttavia lo colse la fine. Egli fu dunque calabrese per nascita e morte e siciliano per adozione.

Nel giugno scorso è stata organizzata a Villa San Giovanni una tavola rotonda per tener desta la memoria di lui; ritengo che Messina dovrebbe opportunamente fare lo stesso, per celebrare l’Uomo dello Stretto che ha saputo gettare le basi del ponte di ideale congiungimento delle due sponde.

 

 

 

"Antonio Piromalli,
un calabrese siciliano"

 

di Turi Vasile

 

 

nelle edicole a ottobre 2006
con "Il Nuovo Riformista", in
Quaderni Radicali n° 97/98, pagg. 269-272

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Turi Vasile e Antonio Piromalli - Roma, 1993

Turi Vasile e Antonio Piromalli
Roma, 1993

 

 

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