Un "angolo di nostalgia e di gratitudine": è la seguente testimonianza scritta nel 1990 da una "ex corsista, divenuta amica", la compianta Lorenza M. Meletti.

parte iniziale di: Come un lascito oscuro e delicato…
di Lorenza M. Meletti, Studi in onore di Antonio Piromalli,
E.S.I., Napoli, 1993 - Vol. I, pp. 222-228

 

Il Sessantotto, non ancora ridotto a memoria, né forse a nostalgia, ci era appena alle spalle: un lascito di fermenti e di dolore, di esaltazione e d'inquietudine. Proprio in quell'anno si era ufficialmente avviato il mio cammino d'insegnante. Dico «cammino» perché nella parola «carriera» sento un quid di spocchioso, o almeno di sproporzionato, e perfino di beffardo; e dico «ufficialmente» perché (ci si ricorda mai di quanto fosse disertato allora questo difficile mestiere?) il caso, la curiosità, talvolta perfino il bisogno avevano «messo in cattedra» molti laureandi e anche semplici studenti - e fu il mio caso - per i quali l'acquisizione del cosiddetto titolo pareva destinata a poco mutare, quanto a prospettive d'una routine decorosa e grigia.
Ma ci fu il Sessantotto, dicevo.
Fossi stata anche di un solo anno più giovane l'avrei «fatto» anch'io.
(continua)
Non che, in tutta onestà, abbia individualmente motivi di lagnanza nei confronti dell'Università ancien régime: godetti la fortuna di grandi Maestri (quorum iura sancta sunto) che erano anche maturi signori di gran tratto, ed impegnai da parte mia una nativa disposizione ad apprendere, una passione, una curiosità vivace ed eccentrica che a sua volta incuriosiva e mi attirava interesse; fui, insomma una studentessa fin troppo, e troppo cavallerescamente, lodata, e non pochi fra i miei esami si risolsero in piacevoli schermaglie, assai più per condiscendenza altrui che per la mia acerba capacità critica.
Ricordi preziosi, che segnano per sempre, come una grazia. Però...
Però è fin troppo chiaro che li produsse una serie di circostanze non proprio ovvie; moltissimi studenti, i più, furono invece messi molto a disagio da quello stile alto che per me era di stimolo anche umano e costituiva una preziosa lezione supplementare. E non accedevano al sapere come chi esercita un diritto, ma solo come chi riceva una elargizione. E per converso oggi, in prospettiva, possiamo dire che la volonterosa cordialità di molti fra i docenti venuti dopo, mediamente più giovani, e - sempre mediamente! - di men consolidato portamento, non diede in maniera automatica urbi et orbi la benedizione di un apprendere veloce, sicuro e felice; tanto più nello sterminato accumularsi del sapere, che indusse a nuovi linguaggi cifrati, con nuove separatezze dal profano volgo.
Tanto più degno allora quel Maestro che non si sente in stato di grazia se gli accade di fare un - come dire? - primo passo verso colleghi di rango inferiore, e timidi, che gli stiano davanti con un'ombra di soggezione, confidando che qualche cosa scatti.
Per Antonio Piromalli collaborare a questo scatto era una norma di vita prima ancora che un atto di (buona) volontà; e tu sentivi - a proposito di quanto dicevo sopra - come appunto intendesse innanzi tutto riconoscerti un diritto, e solo dopo, semmai, darti anche un segno di benvenuto. Non è da tutti trasformare una casualità in un occasione: bisogna, in qualche modo parlare a ciascuno nella sua lingua, ed anche avere una tal misura di generosità da non conoscere nemmeno il valore di ciò che si dona, o l'importanza delle proprie parole.
E per questo che, pur fatta rarissima dalla forza degli eventi, quella di Piromalli nella mia e in altre vite è comunque una presenza; resta il rammarico di vederlo ad intervalli sempre più lunghi, e di non poter costituire, nella sua vicenda che s'intuisce così intensa e schiva, il momento - breve - della distrazione, magari futile, del conversare, della convivialità.

Ma non si trattava -allora - soltanto di un più caldo ed umano rapportarsi; c'era ben altro. Fino al Sessantotto, appunto, e talvolta oltre, era durata nella cultura italiana l'onda lunga del crocianesimo, com'è risaputo; ed era stata particolarmente condizionante per le nostre facoltà umanistiche. E, mentre la classicità e le lingue morte venivano « salvate » dalle loro impervie ma non opinabili né inevitabili difficoltà filologiche e storiche, proprio sulla letteratura italiana, quella che doveva proporsi come patrimonio e diritto di tutto il Paese, restava l'ipoteca di finissime letture secondo il gusto e la sensibilità: le avevamo udite, in esse ci eravamo provati (che altro era l'esame, se non questo?) e ad esse dovevamo addestrare, poiché era giunta la nostra ora, studenti da cui ci separavano dieci-dodici anni appena, e insieme tutta un'età del mondo.
Insomma: più avevamo amato e rispettato i Padri, più sentivamo l'urgenza di voltar pagina; e un gran bisogno di capire, di accedere, aggiornarci, esserci. Si aveva la sensazione, forse eccessiva e da neofiti ma fondata, che «gli altri» stessero studiando, traducendo, pubblicando molto e che in qualche fortunato luogo si rinnovasse il platonico Simposio. Ma chi? Ma dove?
Ah, la provincia: come persuade ancora oggi ai ritmi lenti, come esclude; e come i Presidi sono riluttanti a concedere culturali trasferte, sovvertitrici di molti burocratici adempimenti. Divorante paura, quella di morire alla Grazia senza neppure averla incontrata.

Per fortuna Ferrara è città d'arte ancora appetibile, e il suo passato è di quelli che ancora meritano rispetto e studi. Per fortuna la scuola dove insegno da sempre ha un'aula magna della misura giusta per convegni, seminari, congressi e simili... Incredibile, lo so; ma nel mio caso la montagna andò davvero a Maometto, sotto forma di Corso d'aggiornamento e nelle vesti di alcuni uomini mirabili, che univano una scorrevolezza d'impronta anglosassone alla granitica solidità degli argomenti, nonché al calore della persuasione e dello impegno civile.
Non sapevamo allora, o almeno io non sapevo, quasi nulla di loro; ma qualche cosa nel taglio delle loro conversazioni comunicava una assai originale e nuova misura dell'intendere e del vivere. Antonio Piromalli era - non unico ma principale - inesausto suscitatore delle energie proprie ed altrui; ed anche i co-protagonisti erano stati, lo si capiva, da lui stesso attizzati: mi è venuto alla penna questa voce, che presumo inconsueta, perché sto ripensando all'occhio scuro, vivo, ilare di Oreste Cina, preside in pensione, organizzatore e docente di quel corso e di altri. In lui la cultura era a tal punto lontana dalla polvere e dalla muffa delle biblioteche (ci sono odori e stereotipi junghianamente associati: e il Dotto nel nostro immaginario è più parente di Nostradamus o di Ignazio che di Socrate o Galilei), lontana insomma dal restare inerte deposito, che anzi poteva trasformarsi in una particolare attitudine all'umorismo, in un particolare tono di voce, in una forma di rispettosissima, e gradevolissima, seduzione.

Non pareva invece particolarmente infiammata, né particolarmente consapevole della propria importanza Ersilia Oricchio: una creatura fragile, gentile, sommessa; eppure anche una presenza assidua ed intensa, d'insospettabile energia. Non la si conosceva, in fondo, la si notava appena; ma s'intuiva in lei una di quelle creature preziose, insostituibili, che mettono in moto gli ingranaggi più complessi: che so?, uno di quei direttori di giornale sempre capaci di tirar fuori la pagina più brillante dal caos redazionale dell'ultima ora; o un sovrintendente di teatro che sa sempre come trasformare una «prima» in un evento. Un genius loci, insomma, con qualche cosa, anzi molto, di più: il gusto della giustizia, della libertà, dell'impegno.

Passioni condivise, del resto, da tutto il gruppo, e comunicate con naturalezza a noi, che per l'occasione eravamo discepoli; la loro gratificazione personale, che pur dovette esserci, umanamente, appariva moneta spicciola al confronto del meglio, che stava dentro.Gli argomenti e i programmi, a tutta prima, non diversi da quelli di altri momenti, ufficiali e non, della nostra formazione: «Cultura e Società»; «Società e cultura nel Rinascimento Italiano»; «Francesco De Sanctis»; ma appena l'occasione lo consentiva, ecco subito confortanti «aperture»: «Metodi e situazione attuale della critica letteraria in Italia»; «Contenuti e significato del romanzo d'appendice»...

Ma, quel che più conta, nuove erano le motivazioni, nuovi i risultati, nuova una generalizzata presa di coscienza, quanto meno della propria inadeguatezza. E ne usciva, un passo alla volta, anche un nuovo modo di camminare, di lavorare insieme, di mettere in discussione tutto, di inquietarsi, di vergognarsi un po' ...E ci si raccoglieva da tutta Italia per ricerche, seminari, fatica.
Letteralmente fatica, ancorché lieta: chi scrive ha trascorso due notti in treno, quella di andata e quella di ritorno, per poter godere l'occasione di Foligno senza estorcere furbeschi permessi, senza barare sulla propria salute.
Prendeva forma, forma visibile e viva, grazie a quegli incontri e a (molti di) quegli uomini il nostro sogno di un atteggiamento mentale socratico - nella misura del possibile ai grandi numeri, s'intende, e con mente arresa ad ogni perdita d'aureola; sapevamo anche noi che il sublime del nostro secolo poteva essere solo d'enbas - e copernicano; pronto cioè a trarre dalla rinuncia ai dogmi la miglior lezione consentita; e perciò assai più ironico e indagatore che immobile e burocratico. E allora si capiva davvero come ogni progetto di promozione umana passasse per uno od altro campo dello scibile. Ci si rendeva conto anche - e allora lo scoraggiamento insidiava - di quanto studio lussuosamente dissipato stesse dietro la conversevole «sprezzatura» con la quale venivamo ammessi a condividere tesori di cui noi saremmo stati molto fieri e gelosi custodi. Dico «dissipato», beninteso, rispetto all'atteggiamento che mi appare dominante in questa fine di secolo, in cui la più banale capacità di riflessione assume un iniquo potere contrattuale perché i salotti televisivi fanno norma, o in cui alla laurea si aspira per poterla esibire, come un tempo faceva il povero con l'abito della domenica. Ah, invece, quelle vaste escursioni del pensiero, quella densità d'argomenti, quella fermezza metodologica travestite - per eleganza -da semplici vagabondaggi mentali!
Ce ne veniva un'assunzione di eredità, di identità, di responsabilità; e ci era altresì segnata la via per passare il testimone ad altri.

Non si trattava, dunque, crocianamente di buono o cattivo gusto, ma della dura marcia di avvicinamento ai più alti esploratori dell'arduo cammino umano verso la libertà - dal bisogno, ma prima ancora dagli èidola - che doveva proseguire.
Era ovviamente un progetto politico, che andava perfino contro - a guardare sotto il maquillage del perbenismo e delle frasi di circostanza - i desideri di molti piccolo-borghesi, smaniosi di una scuola che fosse pure di massa, se proprio non si poteva più evitarla, ma anche funzionale ai loro luoghi comuni e alle loro rivendicazioni meno degne.
Ma intanto, per noi che c'eravamo, aveva il suo premio la paziente attesa del costituirsi di un «mondo» congeniale, ove riporre la speranza di un'intensa vita interiore.
Quegli uomini che si imposero alla nostra anima, che ci aprirono porte sconosciute, che vivevano il loro sterminato sapere anche con gioioso abbandono o scintillante autoironia, che ci parlavano come improvvisando senza venir meno alla perentorietà e alla misura di un saggio in cui tutto invece fosse stato predisposto; coloro che rubarono per noi il fuoco agli dei, erano, naturalmente, i grandi nomi della cultura italiana; naturalmente poligrafi, naturalmente poeti.
Non ritengo sia mio compito stilare ora una bibliografia di e su Antonio Piromalli: presumo che in questo volume vi siano numerose e più pertinenti occasioni perché altri lo faccia. Io mi sono riservata, da ex «corsista» divenuta amica, quest'angolo di nostalgia e di gratitudine.
Mi piace tuttavia dire che riconosco Piromalli anche nelle sue scelte di saggista e critico. Lui che si è dedicato molto, e molto si dedica, ai periodi «alti» della letteratura, alla Rinascenza, ad Ariosto, a Parini, a Pascoli, pare avere un riguardo particolare per i minori, i dimenticati, i sottovalutati, i desolati: Guido da Verona e Corazzini, Michelstaedter e Pignato, Beltramelli e Vannantò. Un cavalleresco spirito di giustizia può navigare anche fra le strette maglie di una filologia rigorosa.
L'origine - la primogenitura italica - e un così saldo impianto culturale fanno di Piromalli - inevitabilmente - un poeta di pronuncia forte ed alta: «Ultimo greco io, carico di scaglie / d'Oriente...»…