La stanchezza

da Letteratura & Società n. 13 - 2003

Qualcuno (Giorgio Bocca) denuncia la diffusa stanchezza di non capire, del sentir dire e non dire, della recita minimalistica, dell'accumulo di bugie (falsi, menzogne, turlupinature) che non sono meritati (forse, non è sicuro, anzi!) neanche da parte degli elettori dell'attuale maggioranza, da tante persone del popolo che sono state incantate dagli specchietti dell'Imprenditore.

[…] Bocca ha ragione, si resta sfiniti, tutto diventa peggiore di quanto si era immaginato. Eppure il peggio, l'avvilimento, l'indignazione si condensano e da negativi diventano positivi, elementi che suscitano energia, dal male nasce la consapevolezza, la resistenza che vincerà. Il tiranno o l'imbroglione cadono sempre. Come durante il fascismo (che era tirannide e imbroglionerìa) in cui assistevamo con rilassata lassitudine alle scemate del federale che discettava delle trovate staraciane intorno allo stile del regime e non ci si poteva ribellare perché la scemenza cresceva nel compagno di scuola insufflato dal padre ceduo e cencio, nel professore che in camicia nera il lunedì mattina spiegava le fascistate della settimana invece di parlare di Socrate o di Giordano Bruno, nel professore che all'Università ti esaminava intorno a "cultura militare" e a "biologia delle razze umane". Circondati da scimunitura si diventa scimuniti o uno ritiene di essere diventato tale: come quando la disutile visita del papa al Parlamento (inginocchiamenti, genuflessioni, parole retoriche, strisciamenti, ap­plausi e "suon di man con elle") è servita a farci vedere i ricompattamenti di Gava, Forlani, De Michelis (l'esaltazione di Craxi era stata fatta accuratamente la sera prima, in televisione, da un tale Baudo).

Quando la scimunitaggine diventa generale non ci si può sollevare. Valeva poco che, al tempo del fascismo, a proposito di costume, qualcuno potesse ripeterti, all'orecchio (come quando i parlamentari si effondono in aula reciprocamente: perché hanno paura di essere ascoltati), con Mino Maccari che "solo al lago, al mare, al fiume / il fascista ha del costume" o, a proposito di ignoranza e stupidità, "Che seccatura / l'Istituto fascista di cultura". Valeva poco perché la stanchezza aveva vinto e stanchi e vinti avevano finito col costituire una plaudente maggioranza. Come oggi che, a colpi di mano di maggioranza di avvocati del principe in conflitto di interessi, si cancella lo Stato di diritto, lo si sostituisce con lo Stato delle leggi salva-amici, proscioglitrici del processo Lentini, dello Stato che crea le leggi di impunità per un clan. Uno che non era stato eletto nelle votazioni, è stato ripescato ed è diventato deputato: tale (diventato ministro) ha elaborato la proposta di legge infame sul conflitto di interessi, ha an­nullato il contratto dei direttori generali dello Stato: è diventato ministro degli Affari (finalmente!) Esteri. Il metodo è quello del regime, ammodernato con lo spadroneggiamento dei mezzi di comunicazione e con la maggiore possibilità di far cadere la tensione etico-culturale che oggi è una vera depressione. Altro metodo per deprimere è l'allarme relativo al terrorismo: Scajola allarmava sul terrorismo degli epigoni delle brigate rosse, Martino allarmava sul terrorismo islamico. Su mafia, camorra, 'ndrangheta nessun allarme.

 

Il Presidente

da Letteratura & Società n. 13 - 2003

II Presidente della Repubblica ha compiuto buoni studi di letteratura ed ha assimilato figure retoriche del classicismo formalistico nonché idealismi e simbolismi che semplificano i problemi e li riconducono ad armonie supreme dove tutto si concilia (forse al mondo delle idee di Platone, forse al mondo dello Spirito immanente di Croce secondo il quale noi tutti siamo sentinelle di quello Spirito, poste al di qua e al di là del mondo: sono parole di Croce). Sono molti coloro i quali si inventano repubbliche e principati mai esistiti avverte Machiavelli.

Il nostro Presidente celebra il Quattro Novembre, come è giusto, quindi dichiara che la storia non ci divide più e l'Italia ha ritrovato "una memoria condivisa". Quale? Quella dei ciellini e forzitalisti che preparano le mostre dell'antirisorgimento, quella del celtismo di Bossi, della rivalutazione dei Borboni? Alluvioni di fascistismi profluentemente diluviano, si intitolano vie e piazze ai ras del fascismo, ai difensori della razza; a Predappio si fanno feste in ricordo del duce.

Dire che la storia non ci divide più vuoi dire che siamo tutti della stessa ideologia: ma non c'era alcuno che stava dalla parte sbagliata? Il Partito d'Azione non ebbe mai tale concezione, ha sempre combattuto il fascismo e ha fornito i quadri alla Resistenza. E la Resistenza contro chi era? Come scrive Giorgio Bocca "nessuno può chiederci di ammettere che noi partigiani e i fascisti di Salò eravamo la stessa cosa". La verità, Presidente, è nelle differenze ("Sul Vietnam - gridò un giorno in piazza Franco Fortini - ci si divide!"): nel non essere fascista, nel non essere secessionista, nel non essere integralista, nel non essere partecipe di conflitti di interesse (a qualsiasi livello: un giorno Pertini non diede la mano a un ladro democristiano deputato).

Il Presidente fa bene a occuparsi del fumo che fa male, che porta alla rovina. Ma c'è un fumo che da il cancro alle istituzioni, che distrugge lo Stato, la giustizia, la scuola, il diritto civile, penale, internazionale, che minaccia la libertà civile con l'accusa ai libertari di essere "sovversivi" (come fece Mussolini che poi istituì il Tribunale Speciale). L'idealismo e il simbolismo non cancellano gli strappi violenti e illegali generati da quel conflitto di interessi che gronda reati, ingiustizie, sopraffazioni, arricchimenti illeciti.

 

La risposta al terrorismo

da Letteratura & Società n. 11 - 2002

II terrorismo (cioè l'uccisione indiscriminata di persone non interferenti con un crimine) è abominevole sia in luogo e tempo di guerra che di pace: è stato terrorismo il lancio delle bombe atomiche su due città del Giappone, è stato terrorismo l'abbattimento delle due torri di New York, lo è il bombardamento dei civili in Palestina, in Iraq, in Afghanistan e in molti altri luoghi. L'abbattimento terroristico delle due torri ha messo in opera un rozzo sillogismo che ha confuso le lotte di liberazione dei popoli con il terrorismo e ha indotto gli USA a una campagna mondiale contro il terrorismo.

Tale campagna coincide unicamente con gli interessi imperialistici americani, è stata gridata e imposta, da menzogna politica è diven­tata dogma per molti governi europei servi degli americani (primo fra tutti quello inglese: la nazione inglese è stata super campione di imperialismo e colonialismo feroci che venivano fatti passare per civiltà; dopo secoli di terrorismo la fuga a gambe levate è stato l'esito inglorioso). Accettando la teoria americana (simile a quella dell'Impero austro-ungarico ante 1914 nonché a quella dei Borboni e dei granducati familiari e reazionari italiani) Mazzini, Garibaldi, Pisacane, Oberdan erano dei terroristi. Così facendo gli USA si propongono di perseguitare, senza guerra dichiarata, dei semplici sospettati, dei falsi indiziati, di camuffare come antiterrorismo la loro prepotenza egemonica militare mondiale. Tanto è vero che una delle cause del terrorismo effettivo, il conflitto israelo-palestinese è rimasto più aperto di prima e ha consentito a Sharon (impunibile) di operare terroristicamente con il consenso americano.

La risposta americana al terrorismo dell'undici settembre è la più sba­gliata e l'Italia non può accettarla perché l'aggressione unilaterale contrasta con l'articolo della nostra Costituzione (e con la coscienza morale) che condanna la guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali. Ci pare, perciò, di assistere a un teatro surrealista quando vediamo presidente del Consiglio e ministri vestirsi con la bandiera a stelle e strisce perché si sentono tenuti su dal terrorismo planetario a stelle e strisce e dalla sua storia di minacce, ingerenze militari, bombardamenti umanitari.

Ciò che sta avvenendo è una umiliazione dell'intelligenza liberale e sociale, umana, di coloro che si richiamano alla coscienza e alla morale, alla storia delle civiltà occidentali europee. Si assiste al trionfo dei polifemi terroristi di Stato e i governi camaleontici europei fingono di aderire all'antiterrorismo proclamato dal governo americano perché hanno paura di sostenere i concetti internazionali della pace tra i popoli.

L'uso della forza a fini di giustizia non può essere esercitato da un singolo Stato ma deve essere controllato da un'autorità internazionale e secondo regole internazionalmente definite. L'antiterrorismo americano serve per controllare le riserve di petrolio nel mondo, il gasdotto afgano che è il più importante del mondo, l'Asia centrale che rappresenta il nuovo equilibrio economico-politico del mondo.

 

La caduta della politica

da Letteratura & Societàn. 11 - 2002

Dicevamo in altra puntata della creazione di un'atmosfera carica di detriti reazionari, controriformistici, dell'interscambio tra azienda amministrativo-produttiva a fine di sfruttamento padronale, patria paesana medieval-feudale misoneista antieuropea / becero-volgare, di faide e rimpicciolimenti mentali e anticulturali, di clerico-fascismo con rigurgiti di Salò; dicevamo della costante distruzione di principi costituzionali attraverso lo sdoganamento di logori infesti arnesi memoria di rovine nazionali, dicevamo che l'acidume saliva di ora in ora e che bisognava opporsi ai privilegi statali dell'arcorese, alla sua politica marketing, alla regressione verso il potere personale, all'affarismo al potere, all'antiterrorismo come licenza di uccidere. Taluni di questi elementi aberranti sono diventati acquisti, intanto, di una maggioranza che con l'esubero dei voti compie conquiste illegali, espoliazioni di diritti collettivi.

Avrà qualcuno il potere e il coraggio di frenare legalmente gli abusi dell'illegale detentore del conflitto d'interessi? Varrebbe il suo coraggio ad aggregare gli oppositori sopraffatti? Varrebbe. Il detentore predetto ha aiutato la caduta della politica, intesa come attività atta ad alimentare il bene pubblico, favorendo l'antipolitica semplificata nelle televisioni che predominano affaristicamente sulle coscienze e sugli intelletti. È riuscito, creando tale contropotere sporco, ad alimentare per sestertia un'antipolitica foraggiata che si oppo­ne alle idee; ha alimentato una ramazzaglia di incompetenti sesterziati (antistorici, antiprogettualisti, antigiuridici, antiriformatori), mignatte, cimici, che costituiscono la locupletata dirigenza telecratica, giornalistica, amministrativa.

Rinascono i fautori del disimpegno nella ricerca storica, risorge l'esenzione dalla ricerca e dal giudizio, esiste solo il narcisismo delle fonti orali, si crea il voluto equivoco dei termini "storico" e "testi­mone", si fugge dal problema individuo-coscienza politica. Si ammonticchia la spazzatura avversa al diritto e ai magistrati, alla filosofia e agli studiosi, il livello di legalità italiana è sempre meno compatibile con quello internazionale.

 

Globalizzazione

da Letteratura & Società n. 9 - 2001

Gran parte della popolazione mondiale non può comprare nulla perché nulla guadagna, un miliardo e oltre di persone non sanno leggere né scrivere. La lotta di classe (tale è l’antiglobalizzazione) correvelocemente, col tempo delle tecnologie.

[…] Rimane la supremazia delle armi nelle mani dei capitalisti globalizzanti, mondializzanti; costoro sfruttano i prodotti del lavoro del Terzo mondo a basso costo vendendoli con etichette occidentali e, se le cose si lasciano come sono, gli sfruttatori saranno sempre più ricchi e i poveri sempre più indigenti e malati. Migliaia di popoli, piccoli, perdono anche la loro lin­gua: in Europa esistono circa tre milioni di persone per ogni lingua, nella Nuova Guinea ci sono solo 5700 parlanti per ogni lingua.

I contestatori dei capi di Stato che rappresentano una parte della popolazione mondiale stanno semplificando l'esposizione dei fenomeni sociali complessi, divulgano la perdita di identità di individui e popoli (e guardano con favore alle piccole patrie da difendere o da recuperare), l'esasperazione di mali dovuti alla globalizzazione (disoccupazione, alcolismo di massa, nevrosi, droga, ecc.), il proprio antindustrialismo. Un economista cattolico, Romano Prodi, propone una lettura sbagliata quan­do afferma che la mondializzazione è "come la marea che alzandosi porta in alto tanto le barche piccole quanto quelle grandi, costituisce fattore di ricchezza e di sviluppo per tutti i paesi e le popolazioni che a quell'apertura partecipano". Troppa grazia per i globalizzati! L'economista globalista, europeista, cattolico (quanti attribuiti! ma il cristiano non può diventare lo schiacciasassi del Terzo mondo!) si libera la coscienza con paragoni, metafore, letteratura (e l'economista dove va a finire?). Altra volta esamineremo le infinite tesi idealisteggianti, glicemizzate, minimizzanti, concilianti (a parole ma nella sostanza cariche di ideologie della supremazia) che sono parte della dottrina della Casa delle Impunità.

 

La musica del mercato

da Letteratura & Società n. 9 - 2001

L’impunità diventa un elemento di fatto e corrisponde alla perdita di potere e di controllo dello Stato territoriale (o nazione), diventato res omnium (ma con altissime gabelle intercapitalistiche) in quanto luogo di attraversamento di comunicazioni, di sorveglianza da parte degli strumenti della globalizzazione. Gli Stati si riuniscono per governare la globalità ma frantumano democrazia e rappresentanze. Con sublime e rozza ipocrisia Bush si presenta quale Mercato supremo che garantisce tutti e chi gli si oppone (e potrebbe farlo Prodi?) è nemico dei poveri; Blair gli tiene lo strascico, coopera "con i governi europei di qualunque colore politico" (cioè anche con gli aziendalisti, reazionari, assolutisti) e ritiene "sensato cercare i sistemi offensivi e difensivi adatti a combattere la minaccia" delle armi altrui (Libia, Iran, Iraq, Corea; forse anche Capo Verde, Trinidad, Brioni...); il nostro Prodi trova che la tensione sul vertice dei grandi è "troppa": qui non si fa politica ma si lavora dicevano i fascisti; lasciamo luogo e tempo ai grandi che sono il massimo di potenzialità tecnologica, massmediatica, economica aggiunge il cattolico.

Il carrozzone del vertice dei grandi avalla i concetti autoreferenziali della modernità tecnologica che abbatte tutti gli ostacoli concettuali della tradizione storica, destinata ad essere cancellata. Non ci può più essere confronto e l'interesse degli intellettuali è quello di lottare in tutti i modi per non farsi omologare da coloro che non esistono in quanto non hanno la ragione dell'esistere: costoro estendono internazionalmente la vanità politica, l'inutilità delle loro parole, e ne fanno una coltre che copre il pianeta.

Essi sanno che il mercato non estende automaticamente la democrazia occidentale e prefigurano, nella loro inutilità impastata con ceroni di cordialità, un mondo di miliardi di uomini che suonino la musica del mercato. In altra puntata leggeremo la pagina di Michelstaedter che prevedeva la riduzione del mondo a uno scenario in cui i più arroganti rice­vono ubbidienza (forse non ci saranno le misure del vertice di Genova ma siamo vicini: 600 portaborse per un Presidente americano, 4300 giornalisti rifocillati di mangime - come gli altri invitati e partecipanti - da parte di 1200 camerieri).

 

La “preda arrengadora”

da Letteratura & Società n. 5 - 2000

Questa rivista non è nata solamente per allineare contributi di studiosi valenti nei loro campi ma, soprattutto, per cercare di capire i motivi della crisi della letteratura e della società perché i due termini sono interdipendenti. Il titolo della rivista li mette in luce molto bene e noi indaghiamo sempre sulla perdita di identità culturale e di memoria, sul mutamento dei modi di vivere, sulla velocità del cosiddetto vivere, sull'onnipotenza della tecnologia che giunge a omogeneizzare i sentimenti e a renderli uniformi, sul tedio artificioso della comunicazione che uccide la storia e l'uomo.

Come quando la mucillagine invade le acque marine e si cerca di creare delle dighe perché essa non invada le spiagge, così dobbiamo difenderci, nello studio della sclerosi politica e culturale degli ultimi lustri, dalla sempre rinascente mucillagine che mira a nascondere le attività dei barattieri che hanno "sluvazzato" l'Italia (il termine, ferrarese del secondo Quattrocento, usato soprattutto da Antonio Cammelli detto il Pistoia, significa mangiare come i lupi; è costantemente riferito al magistrato Niccolò Ariosto, del quale si dice che avrebbe sluvazzato anche la "preda arrengadora", il pulpito di pietra dal quale si facevano le arringhe al popolo: operazione ripetutamente compiuta dai moderni barattieri).

I moderni barattieri hanno tradito socialismo, cristianesimo, paganesimo, classicismo, romanticismo e decadentismo; impuniti, impunibili, arroganti, inamovibili, hanno riprodotto i polloni e determinato l'autoreferenzialità di sé dominatori in forma antidemocratica. Pur dopo le condanne penali, morali, culturali, i nipotini della triade denominata CAF si riciclano a sciami, trasvolano da un immondezzaio all'altro. La trasmigrazione è accompagnata da immensa pervadente ciarla assolutoria, garantista, revisionista, reazionaria: per opera loro si cade ogni minuto nella deconcettualizzazione, nella cancellazione dei princìpi morali e culturali, si scivola nel fascismo senza luce, si restringono i margini del dibattito democratico, prevalgono i violenti e i cialtroni, si esalta la giustizia personale, la vendetta del clan.

Il flusso comunicativo - l'immenso fiume diventato oceano spelagato dei padroni della comunicazione (prediletti dalla minoranza potente della maggioranza di governo) - fa tabula rasa di storia, aggregazione culturale, identità, memoria. È compito anche di queste pagine, di società e cultura, opporsi al contrabbando che smercia poltiglia, il residuo degli intrallazzi tra l'ignoranza politica e quella culturale.

 

Un Priapo bombardiere

da Letteratura & Società n. 5 - 2000

L'illuminismo con la sua lotta contro i pregiudizi e gli autoritarismi perpetuati da secoli di ignoranza e superstizione ha fatto nascere la cultura moderna con base razionalista. Le grandi ideologie umanitarie e democratiche dei secoli XIX e XX hanno fatto avanzare l'umanità abbattendo colonialismi e schiavismi. La conclusione di questo ciclo di progresso ha fatto ricrescere l'ignoranza aumentata dalla confusione generata dal tecnologismo che non dichiara i suoi fini o li distorce dall'umano, sicché ci troviamo a vivere in una immensa selva oscura di inconsapevolezza, in una selva di piante nocive e velenose; queste non vengono estirpate perché non c'è più diserbazione da veleni come avveniva quando idee e ideali erano obiettivi popolari e comuni.

Con un Priapo bombardiere da diecimila metri di altezza, consumista e governatore mondiale a stelle e strisce e con il gruppo da lui indirizzato, vince nel mondo il vuoto culturale e la natura cieca priva di dialettica. Solo una cultura dialettica, umana, polemica - come è segno degli uomini essere polemici per superare, di volta in volta, il non vivente - può distruggere le selve dell'ignoranza del consumismo, una cultura che porti luce, una cultura che non faccia diventare il mondo un deserto di antenne, di reti, di avvolgimenti che rimangono sempre in potere degli oscurantisti e degli ignoranti.

 

Il Cavalier Mostardo

da La Voce del Popolo, 24.06.1995

È un famoso personaggio di Antonio Beltramelli. Il personaggio nel 1920 scrive una lettera contro il suo ex servo Rigaglia diventato socialista e perciò “ignorante demagogico, brigante di strada, vagabondo egoista, truffaldino” promettendogli una spedizione punitiva. Sette anni dopo Mostardo, già repubblicano e ora fascista, si dice disciplinato quando si tratta del duce ma pronto a menare le mani e a rompere spalle. Fin dal principio Mostardo vede i contadini come “razza egoista”. Mostardo è un eroe di cappa e spada, tribuno desideroso di potere, pittoresco e bizzarro, illusionista, facile alle promesse. Coloro che lo avversano sono balusa,, babaròn, dei Balanzoni. Ha al suo seguito un numero di gaglioffi che truffano.

Lui si sente un leone e si getta nella lotta in modo furioso (inseguendo una donna stritolò due cani, rovesciò una carriola e il suo padrone, portò via una ruota a un barroccino da corsa, urtò un paracarro, investì un ciclista). Il suo linguaggio è accumulativo - da venditore di piazza - e iperbolico, esaltatore di falsi eroismi, di bricconerie squadristiche, di fucili e manganelli. Il Cavaliere diffonde con il suo parlare i luoghi comuni e i pregiudizi sul socialismo diffusi dalla rozzezza del primo fascismo e il dartagnanismo arditesco che era una costante dell'ideologia fascista. Il Cavaliere ha la tartuferia tradizionale italica nel creare il luogo comune falsamente eroico, il falso popolarismo (in realtà il borbonismo, il brescianesimo). Così il repubblicano che non vedeva male i socialisti si allea con gli agrari, finanzia i fascisti.

La tipologia del cavalier Mostardo non è rara, presenta innumerevo­li variazioni nella storia d'Italia dal Medioevo in poi: è presente come ricco Ghino di Tacco predatore, come tirannello rinascimentale (di quelli dipinti da Machiavelli), nel Seicento c'è una clonazione di Cavalieri che un secolo dopo si rintanano nelle “adulate regge” e più tardi sono andati sciamando nell'industria, soprattutto quando la società di massa ha consentito la moltiplicazione dei consumi: con i loro immensi profitti derivanti dall'usufruizione dei consumi gli odierni cavalieri penetrano dovunque, dicono menzogne e ingannano, speculano, si atteggiano a vittime ma preparano la squadracce. Il Cavaliere starà magari in villa ma ha dovunque i suoi panzer dalla pancia d'oro: non tutti lo hanno smontato ma ormai molti si sono accorti che egli si sventa da solo e lo possiamo vedere a terra, sbottato e inviperito.

 

Tra il maiale e la scimmia

da Calabria oggi, 1.02.1992

Una recente inchiesta dell'Espresso ha messo in rilievo la bruttezza dei programmi televisivi, la noia che promana dalla mancanza di idee, la goffaggine dei personaggi, il divismo da povericristi, l'aspetto cadaverico dei comici dell'arco costituzionale, adulatori e privi di dignità nel ridere, il funambolismo e il camaleontismo dei conduttori, la volgarità dei plurisesterziati, l'oltranza degli esperti del calcio imposto come necessità ecc. È davvero uno sfacelo vedere lo stato psicologico dei conduttori. Fra gli intervistati uno dei più precisi è stato Federico Zeri: "La programmazione televisiva è a un livello orrendo che sta tra il maiale e la scimmia".

Vincenzo Consolo, uno degli scrittori più seri di oggi, osserva che si legge sempre di meno, che i giovani scrittori vengono allevati nei vivai, che non esiste dibattito sulla letteratura, che la lingua italiana somiglia sempre più a quella orrenda di Baudo, Carrà, Banfi, di altri peggiori, che il dialetto ormai è usato non per rivolgersi a un pubblico locale (non come vernacolo) ma come lingua diversa, come lingua altra. È proprio così.

Un recente scritto di Romano Luperini su Belfagor intorno ai difetti della critica letteraria e alla sua mancanza di impegno ha suscitato scandalo, come le recensioni negative di Roberto Cotroneo su libri pessimi. Si vuole l'unanimismo e l'applauso, lo spettacolarismo come visceralità al di fuori di ogni giudizio critico o di valore. La vanità degli scrittori si presta a farli considerare oggetti.

 

I primi della classe

maggio 1986, Comunità bruzia

I primi della classe di tutto il mondo occidentale si sono riuniti a Tokio per rendere nota, a chi non se ne fosse accorto, la loro arroganza di potere e la creazione di una santa alleanza fondata sulle cannoniere, le corazzate, le portaerei, i missili, per stabilire con la carta bollata quali sono gli stati terroristi.
Nemmeno una parola sul problema palestinese. I veri terroristi son quei sette (sette-cinque-sette) stimolati da una lady eccitata, essi che sono i creatori dell'inquinamento e della radioattività universali. I primi della classe si sono ritagliata l'isola d'oro lasciando, da colonialisti moderni, i poveri delle periferie mondiali tra miseria, lotte, guerre e deperimento: anglicani, quacqueri, protestanti, cattolici (tutti cristiani padroni di basi, grintosi, bombardieri, cannonieri) contro "l'arabo, il parto, il siro" che non può intendere la loro voce spirituale.
Eppure la nube radioattiva cade anche sui padroni delle basi, sui tecnocrati dalle mille incompetenze e dai dati confusi e insensati, i quali invece di trattare per il disarmo demonizzano i paesi ai quali e contro i quali mandano armi: sublime missione di civiltà!

 

Il filosofo e i poveri

luglio 1971, da Lettere Vanitose

Sul quotidiano parafascista di Roma del 28 del mese mariano dell'anno di grazia 1971 Michele Federico Sciacca filosofo discetta sui «poveri di spirito». Costoro non sono, per quanto riguarda la loro destinazione, la beatitudine, il regno dei cieli, i poveri in canna, gli Amiclati, i disoccupati, i reietti, gli storpi, i gobbi, perché in tale senso la povertà sarebbe limitata alla «condizione sociale» e in cielo si troverebbero poveri con poveri; frustrazione immensa nel non potere godere della vista di Agnelli, del contatto con la Sofia, dei panfili di Merzagora, della «roba» dei ricchi i quali, ovviamente, porterebbero con sé le loro cose.

No. «Non si può limitare il significato della parola “poveri” alla pura condizione sociale (...). In questo caso, il puro stato di povertà sarebbe per ciò stesso stato di salvezza sicura». Invece no. Molti poveri andranno all'inferno per motivi di giustizia: poveri e dannati, per Giove. Molti ricchi andranno in paradiso perché per povertà «qui si intende» (intende lui, il filosofo cattolico, che continuerà a tenere lezioni nelle lande carismatiche) «stato morale o stato interiore di povertà». Non dice S. Basilio che è povero nello spirito colui il quale «pur possedendo, non mette il cuore in quello che possiede»? Quanto poco mettono il cuore in ciò che possiedono Costa, Cefis, Pesenti, Monti, Lauro, Matacena, Cini, Torlonia, Orsini, Alliata, ecc.! Ergo, beati! Allarghiamo pro pauperibus divitibus regnum Dei! Se il povero «vi mette il suo cuore», in ciò che possiede, «è egli il non povero e non è beato di fronte a Dio».

Chiarissimo. «Poveri lo siamo tutti» in quanto «umili mendicanti di Dio»: Ciancimino, Vassallo, Pirelli, Lima, Gioia, ecc., perché «questo il senso francescano della povertà». Povero è anche, per l'illustre filosofo della filosofia di Gallarate, chi «senza rinunziare ai suoi beni per seguire Cristo» «se ne serve per il bene comune» e considera i beni non proprietà privata ma (o mente, o luce intellettuale piena d'amore, amor di vero ben pien di letizia) «proprietà personale». Ciò non vuole dire che il fine sia la società perché anche in tal modo rimarrebbe in piedi l'egoismo, sociale ma egoismo.

Allargato il paradiso ai ricchi anche non rinunzianti ai beni, vediamo volare con ali di oro il conte Marzotto, la dinastia Olivetti, i Salvarani, gli Zoppas e altri benefattori verso il ciel d'auro delle più remote costellazioni et ultra. Servi servorum anche essi, igitur più poveri dei poveri. Ciò fatto, il filosofo si domanda: a che vale organizzarci? A che vale cambiare le strutture? A che vale fare rivoluzioni? «Di rivoluzione c'è solo quella insegnata da Cristo: la rivoluzione interiore, esser poveri nello spirito»; tale rivoluzione - e qui il filosofo si fa storico - è diversa da quella del giacobino il quale (lo Sciacca lo conosce bene, è nato e vissuto fra i giacobini) «parte dal presupposto che tutto quello che è stato è male e va distrutto, tutto quello che sarà, sarà bene».

Beh, professore, il giacobino non diceva questo; e mal si oppone quale docente universitario Ella che insegna tali coglionerie. Forse Ella in aula tali cose non direbbe per paura di genovesi cachinni che bene meriterebbe. Ma transeamus. Fatta una rivoluzione, continua il filosofo, questa è «il bene di oggi rispetto al male di ieri»: anche Guglielmo Giannini buonanima diceva ciò e non ha mai ottenuto la cattedra universitaria, forse perché parlava meno su Cristo e farfugliava di Stato amministrativo. Niente rivoluzioni. Il mondo è ingiusto ma le ingiustizie «nel mondo - continua con amabile prosa il filosofo - chi ce le mette, le strutture o gli uomini? Ce le mettono gli uomini le ingiustizie!». Ci par di sentire il povero pretino analfabeta che ci insegnava la dottrina. Le strutture sono, aggiunge Sciacca, «neutre». E' inutile rinnovarsi, affinchè le strutture si rinnovino basta che ciascuno «faccia quel poco di bene che può fare». E così sia.

Se Marx avesse letto i pensamenti sciacchiani avrebbe ripudiato il Capitale, il Manifesto, ecc.; il mondo avrebbe avuto una svolta decisiva.

 

Nel centenario di Porta Pia

settembre 1970, da Lettere Vanitose

Purtroppo il linguaggio della analisi politica che occorre adoperare per la situazione italiana è più prossimo a quello che si deve adoperare parlando di una situazione sud-americana. Il potere dello Stato è inquinato da quello della chiesa, la atmosfera è irrespirabile, il trinomio banca - industria - altare si sovrappone alla civiltà e alla libertà dello Stato, sicché quando si parla di libertà - anche da parte di altissimi personaggi - si capisce che si tratta di libertà agonizzante o cadaverica; eppure la parola non fa che riempire la bocca, ed è di continuo inquinata.

Alla vigilia del centenario di Porta Pia occorre ricordare le parole di Garibaldi del 6 settembre 1878: «Noi li abbiamo qui veduti i colli torti, col crocefisso alla mano, precedere le soldatesche che ci portavano la distruzione, l'incendio, la contaminazione». Intrallazzi, corruzione, danaro, moneta, oro, immobili, mobili etc., rimangono la base del potere che si chiama spirituale.

 

Il vate, l’eroe, il santo, il colonizzatore, il missionario..

agosto 1970, da Lettere Vanitose

Dei romanticismi papiniani, dei drammatismi meridionali, dell'accademismo della critica, dello scrivere come se si fosse sacerdoti dell'io, dell'arte, sono caduti tutti i presupposti: i problemi degli uomini, non di un solo uomo, hanno demitizzato le storie interiori, le costruzioni romanzesche. La realtà è quella che è storicamente, non quella che si romanzeggia; se mai, il poeta e lo scrittore possono demitizzare, desacralizzare con l'ironia la tradizione goffa, paternalistica, cerimoniosa. Il vate, l'eroe, il santo, il colonizzatore, il missionario sono caduti rompendosi le ossa.

 

Ancora bombe sul Vietnam

maggio 1970, da: Lettere Vanitose

La protesta anti-Nixon echeggia da Berlino a Londra a New York, i «vagabondi» - così Nixon chiama gli studenti che protestano a Kent: Nixon avrebbe preferito la protesta a taralli, il goliardismo fasullo di altri tempi - cadono sotto il piombo della polizia. Il grande stratega dell'invasione della Cambogia non è capace di elaborare un piano serio per mettere fine alla guerra e, per prestigio, decreta la fine di altre vite umane. Nixon non ha pesato le ragioni che hanno costretto il famigerato Johnson a lasciare la presidenza e a venire a trattative con il Vietnam. Nixon crede che la marcetta lungo il fiume e il lancio di migliaia di tonnellate di bombe possano piegare chi combatte per la propria terra. Nixon non vuole ammettere che gli americani hanno perduto la guerra: ma non solo la guerra; hanno perduto la faccia, la pace, l'intelletto. Intendiamo dire gli americani che difendono Wall Street. Ma ormai non c'è nulla da fare. Gli rimane la sconfitta, la protesta di tutto il mondo, gli rimangono i futuri morti e la «comprensione» di un dissennato allocco di oltre Oceano.

 

Il giudice-robot

maggio 1970, da Lettere Vanitose

Anche l'Unione magistrati frigge. « Sappiamo bene quanti stridenti squilibri ci siano da eliminare, quanti inveterati abusi da distruggere, quante schiavitù palesi e occulte da riscattare, quante impalcature logore da demolire e quanti nuovi istituti da creare ». Così il presidente dell'Unione, dott. Trotta. E chi non sa tutte queste belle cose? Anche il cuoco ormai le sa. Ma il dott. Trotta teme che i novatori facciano cadere le « strutture portanti ». Il tempo e la cattiva costruzione fanno cadere il Palazzaccio di Roma e il Trotta ha «comprensione» — anche lui — per le disgrazie, gli squilibri, etc., ma teme per le « strutture portanti ». Si tratta di strutture «non portanti», caso mai, perché fatiscenti e il presidente vuole sostenere il fatiscente: di fatto e non a parole; a parole è contro il fatiscente. Ma, signor presidente, Carlo Marx ha capito che non basta interpretare le cose e andarsene a letto, intendere e contemplare: occorre cambiarle, ha scritto Marx, e il vento del cambiamento percorre l'Europa e il mondo. Altrimenti la giustizia è un fatto di tecnica, di forma, di applicazione di leggi vecchie.

Il giudice-robot, buono per qualsiasi legge, sarebbe l'ideale per la concezione vecchiarda della giustizia. Tale giudice - così una mozione del congresso dell'Unione magistrati - «non ha altra scelta che quella di applicare la legge per quello che essa è, per quello che essa afferma e statuisce, anche quando il suo contenuto può apparire iniquo, non più rispecchiante il comune sentimento di giustizia ... O applicare e far rispettare la legge o deporre la toga». L'apologetica del defunto e non del vivente, dei monumenti e non delle persone, dei mostri sacri e non della mente umana, trionfa in queste abnormi parole contro le quali contrasta tutta la cultura mondiale, da Socrate a Luther King. Scienticismo, tecnicismo, dichiarata irresponsabilità politica (ma è sempre lecita la politica conservatrice), sono questi i temi dei conservatori della cristallizzazione, dei difensori delle formule, della giustizia di pochi: sono gli esperti della disumanizzazione della giustizia.

 

Non lo spirito ma Agnelli

giugno 1970, da Lettere Vanitose

Il nostro atteggiamento è stato di durissima opposizione alla retorica regionalistica e localistica, al mascheramento -per mezzo della retorica - della realtà. Ancora una volta invece di sentire parlare dei problemi concreti della Calabria, anche in modo spietato, in modo da denunciarli e da provocare problematica, concretezza, vediamo che in Campidoglio si parla della Calabria come «grandioso movimento di intelligenze magnanime!». Sono mascheramenti della mancanza di interessamento per case, scuole, ospedali, pane e lavoro. La nostra è l'ultima regione italiana, le glorie fasulle sono quelle che i retori ufficiali rivestono di incensi di parole per camuffare inadempienze, incompetenze, interessi molto chiari. Per questo siamo contro la letteratura non impegnata, contro il dilettantismo che è il suo frutto, inerzia morale e pratica di cui la nostra regione ha sempre pagato lo scotto.

II sottobosco letterario è salito agli onori di una indagine quasi sociologica da parte dell'Espresso e fra le sottoriviste letterarie ab­biamo ritrovato con piacere alcune di quelle da noi prese di mira e che fanno parte di quella quarta dimensione della cultura che ha le sue riviste, i suoi editori, le recensioni esaltatrici (guai a dissentire, a stroncare, a portare idee: si è sconsacrati e scomunicati), le sue donne “poetesse”, gli idealismi in opposizione al materialismo e al marxismo trionfanti e deturpanti, la difesa dei valori dello spirito, la tradizione umanistica, la lotta contro le avanguardie, le eversioni stilistiche, l'esaltazione della luna, delle stelle, dei miracoli e delle Madonne delle lacrime, ha un pubblico tenero-sentimentale, patriotti­co, nostalgico, anti-Merlin: ha una sua ideologia che è contro le ideologie (che non siano quelle del passato), è il riflusso di un mondo che non esiste e si illude di esistere. Un mondo che non vuole capire che non lo spirito ma Agnelli e Montedison e Immobiliare comandano la baracca dello spirito.

 

Magistratura democratica, e valeriana

maggio 1970, da Lettere Vanitose

Il quotidiano romano “Il Tempo” è preoccupato per un movimento di magi­strati democratici sorto in questi giorni. I magistrati devono essere « al di sopra delle parti, delle tendenze, e si dovrebbe addirittura sperare al di sopra delle passioni ». E' la vecchia tesi adiafora del tecnicismo e del platonismo, a patto che funzioni da destra: altrimenti si chiama sovvertimento. Tesi che ipotizza l'immobilismo, la casta.

Ma la cosa vera è una sola: la Costituzione; e se invece di assenza di passione si dicesse Costituzione tutto sarebbe ben diverso. La Costituzione non presuppone una «terra di morti» e «mummie dalla matrice» cui sia «becchino da balia» ma una terra di vivi anche se non santi e poeti; la vita non è assenza di passioni ma è sviluppo e dialettica; non è certamente dialettica a senso unico, dei potenti e del danaro. Così vorrebbe il giornale romano che fosse e indica alle autorità «competenti» che «si prendano provvedimenti», «misure disciplinari» contro i magistrati democratici, occorre «metterli in condizione di non nuocere» : come la buonanima disse di Gramsci.

Per il giornale romano l'ideale è «la calma», e parlando della «autonomia» della Montedison garantita da Merzagora riporta le parole del medesimo il quale ha come ideale la «valeriana»: «Invece di Valerio, accontentatevi della... valeriana, che è un vecchio sedativo».

Come ideale non c'è male. Ma il giornale romano ha un vero timore: che la coscienza democratica venga a uno scontro ravvicinato con l'attuale organizzazione del potere statale. Tutto il resto non ha importanza. Ma come ideale educativo avrà la sorte di quello della controriforma, delle monarchie assolute, degli imperi: il collasso da pluricause.

 

Nel sottobosco dei calabri poeti

aprile 1969, da Lettere Vanitose

II sottobosco letterario o quello, più nobile, poetico, alligna e si estende in tutte le tre province della nostra antichissima terra enotrio-esperio-bruzio-calabra; si estende sui monti, sui colli, in paesi, città, casali, marine, e tange barbieri, medici, enti di turismo, disoccupati, maestri, spedizionieri, giornalisti, avviluppa giornalisti e impiegati del comune, intrica brigadieri e commercianti.

Col nome che più onora, quello di poeta, il sottobosco avanza tra la pletora di macchine e ammaga i cuori: il core, l'augello, la sorte ria (ma anche un personaggio politico in un istante di deliramento disse «il cinico baro») rappresentano i motivi costanti del linguaggio poetico del sottobosco; i più giovani irenicamente cantano la pace, la fine della guerra ma al modo del sottobosco.

I sottoboscaioli vivono in una felice e smemorante arcadia, distesi al sole dello Stretto o degli Appennini, si abbracciano alle grandi piante perché sono parassiti e saprofiti, leccano le cortecce, cercano di evitare le spine, vanno alla ricerca del miele e del latte. Lembi e radure del sottobosco rigurgitano di ricotte e mozzarelle, di sieri e di cagliate; e nel meriggio aulente ilsottobosco si gonfia di calura e di odori, gli abitanti si addormono pesantemente, quando taluno si desta mormora riverente: «Egli mi pare che noi oggi siamo ritornati in Arcadia». Grandi consensi e ammirazione suscita la frase, mentre i moscerini in segno di approvazione danzano nell'aria. Il sottobosco congaude e s'immilla, chiama tutti a congaudere della felicità e verso sera gli abitanti si dispongono ai sacrifici e agli elogi: si leggono le belle parole, si pronunziano con labbra di miele suadenti espressioni, qualche canonico benedice soavemente, le anime belle e grandi si letiziano in sentimenti di pace e di bontà.

Nelle ore malinconiche dell'anticrepuscolo un sentimento quasi sacro scende sul sottobosco: un poeta che non ha mai studiato l'ellenica favella conciona di Ibico e di Nosside, mirabile cosa, per «ispirazione» gli altri sottoboschi applaudono riverenti e commossi. Un altro gioca, un altro scrive una epistola a Filippo e annunzia la fine della rubrica Lettere vanitose, un altro vanta amicizia tenera affettuosa di Marotta, Vittorini, Saponaro, Cecchi, Baldini, Angioletti, Ravegnani etc. i quali quando erano vivi gli telefonavano ogni giorno e gli raccomandavano di non studiare e di non consumarsi sulle sudate, da altri, carte; un altro si raccomanda al «deus» Calì e si meraviglia che sia sfuggito alla sua attenzione (inaudito, come è avvenuto? mormorano i sottoboschi); intanto giunge da un sottobosco di altra regione una missiva in cui si dice che « costà », « costaggiù » sta per arrivare un libro spedito dal nord, con prefazione di un noto critico, Noscipio, confratello in Arcadia. Il lieve crepuscolo rende spirtali e sommesse le parole ma un sottobosco coraggioso propone di votare un ordine del giorno contro la contestazione e contro i critici; un altro propone di fare uso soltanto del sentimento e del cuore; un altro propone un premio letterario per un poema di diecimila versi con le rime in ore e esso.

Tra reciproci complimenti e rallegramenti (dei quali saranno pubblicati gli atti) le proposte vengono approvate e si decide di mandare un messaggio di richiesta di aiuto a Filippo perché intervenga contro i critici specialmente contro i barbari che vivono fuori del bel suolo bruzio, i quali vogliono distruggere le feraci aure poetiche donde l'alta e progressista poesia di Diego Vitrioli trasse lo spirto che la governa.

L'ombra che comincia a discendere e il canto degli uccelli, rosignuoli, armonizza in concordia rugiadosa e lattiginosa le anime socialmonarchiche, nonché repubblicane, dei poeti; i quali cominciano a sognare tristi sogni, mandati dal demonio: sognano l'elogio, il premio letterario, il lauro, la corona, il ramo di ulivo, la palma, l'incenso, la comunione delle anime, la recensione, il più grande dei misteri del sottobosco. Il canonico assicura che non si tratta di sogni del maligno ma di sogni leciti e consentiti; i sogni malefici sono quelli che contrastano la libertà e l'ispirazione, cioè lo studio disumano e fatto con l'intelletto anziché col cuore; lo studio del cuore e la recensione sono le ultime parole che il sottobosco ode, poi tutto sprofonda nella pace della sera, nel sonno e nell'oblio mentre lucciole, grilli e sirene distendono veli color di viola sui sacri poeti.

 

Classi dirigenti meridionali, e coloniali

aprile 1969, da Lettere Vanitose

Le autostrade possono rendere più gradevole e bella la nostra regione, alberghi e ristoranti possono renderla più dilettevole ai visitatori, ma il problema è quello politico di fondo, il problema meridionale delle classi dirigenti che sono sempre le stesse. Sono sempre quelle ispano-borboniche con la costante clericale e fascista; non ci riferiamo alle sopravvivenze, che non hanno importanza (anche a Modena c'è un partito clerico-estense), della destra costituzionale ma al trasformismo della reazione sotto forma di mafia.

Il clientelismo è mafia al servizio di interessi particolaristici i quali hanno la forza di attuare ciò che vogliono, l'immobilismo o la coagulazione del sangue. Le forze più retrograde sono capaci di fare scendere in piazza un paese per interessi sanfedistici, di alimentare la lotta divisionistica fra le provincia, di suscitare pseudo-problemi privi di concretezza, di captare gli intellettuali facendone vessilli di conservazione.

Scuola, economia, politica sono i vasti campi del clientelismo di parte retrograda; le denunce delle crisi, dei dissesti, delle malefatte sono coperte dal patriottismo di parte retrograda. Questo è naturale se si tiene conto della storia e della geografia, del clericalismo e della periferia; ma la patologia rivela i mali cronici e vivere in Calabria è difficile. Ma a coloro che si adattano si oppongono manipoli — come in tutte le età precedenti — di uomini coraggiosi che lottano e che si richiamano al pensiero naturalistico calabrese rinascimentale e illuministico, a una delle tradizioni più gloriose che possa vantare l'Italia, al socialismo e alle lotte concrete.

Ciò che abbiamo detto prima sulla reazione non meraviglia se consideriamo che un barone della cultura, non calabrese, scriveva in tal modo del colonialismo nel 1940: «Se l'Africa è il continente complementare dell'Europa, essa va divisa fra i popoli europei nell'equa e proporzionata misura delle loro necessità. E nessuno può sostenere che l'attuale ripartizione corrisponde a questo principio di moralità indiscutibile » (Riccardo Astuto). Il colonialista, del resto, non faceva sforzo a scrivere in tal modo perché trovava la teoria del colonialismo nelle parole di un padre gesuita : « Da ciò segue in modo ineluttabile, che anche ad una nazione, la quale venisse a trovarsi stretta entro le morse della necessità di vita, la natura concede e comunica il diritto di occupare il bene altrui, nella misura richiesta dalla necessità» (Antonio Messineo).

 

La contestazione globale, i premi, le mostre

luglio 1968, da Lettere Vanitose

La contestazione giovanile dell'ordine esistente nella società ha messo in luce il carattere internazionale del movimento e il suo livello universitario con tendenza ad avvicinare, di riflesso, gli adolescenti e i preadolescenti (in linguaggio scolastico). Sono in contestazione il passato e il presente affinchè l'avvenire sia fondato sul prestigio dei valori, non sul paternalismo e, sull'autoritarismo. Purtroppo, il nostro ordinamento richiede il pesante strumento della legge anche per esigenze che potrebbero essere soddisfatte con strumenti amministrativi e la frammentazione normativa non lascia bene sperare in una rapida e organica sintesi di riforme. Tuttavia regna l'incertezza fra le riforme immediate e parziali e quelle più ampie e più lontane.

L'incertezza non sana il disagio di chi ha visto crollare l'umanesimo formalistico, la crosta del razionalismo crociano, e ha visto emergere dal tecnologismo neocapitalistico la disumanizzazione del cosiddetto benessere (la assurda combinazione dello Stato del benessere belligerante su basi di violenza, odio, sangue), la desublimazione dei sentimenti indirizzati verso la “consumazione” (culturale, erotica, del lavoro, etc.).

La protesta, la contestazione totale sono i segni caratteristici di questo nuovo illuminismo umano, di questa riscoperta dell'uomo in luogo della sopravvivenza dei sacri mostri creati dalle generazioni che ci hanno preceduto. Non si tratta di negare la tradizione ma non si tratta neanche di giustificare alla luce dello storicismo ogni errore del passato.

Non è vero che nel male è il bene; dal male è nato sempre altro male e il paternalistico manzonismo non ci soccorre né l'umanesimo cristiano nella sua anfibologia etica. Anche le istituzioni culturali sono state spesso dei sacri mostri al servizio del potere e dei piaceri intellettuali della classe dominante ed è giusto che la contestazione le coinvolga perché rinascano sotto altra forma e con altra verità (mostre fasulle verniciate di europeismo e di avvenirismo, tenute in piedi con l'elargizione incontrollata dello stato in favore di pochi magnacci turlupinatori; esposizioni del vuoto che diseducano quel poco di umanesimo che ci era rimasto; mascherate di premi letterari in salotti letterari avallati da giurie tenute dai capitalisti; imbonimenti di formule letterarie creati da critici professionisti i quali dopo il ventennio si sono legati con l'altro ventennio, etc.: e si voleva che i giovani non sentissero il vuoto delle manifestazioni ufficiali e non inverniciassero qualche bella architettura di mostra fasulla? Ma era il meno che potessero fare, dopo tanti decenni di chiacchiere).

 

L’umanesimo delle lavatrici

maggio 1968, da Lettere Vanitose

Ci è capitato di leggere molti articoli di stampa retriva e qualunquista che condanna in blocco i movimenti studenteschi considerandoli sotto la formula dell'estremismo giovanile e vedendoli asserviti, per il linguaggio usato dai giovani a partiti politici. E' inutile soffermarsi sulla vacuità di chi non vede i problemi veri e si ferma su sospetti pericoli, timori di sviluppi etc. mentre il vero timore è che i giovani possano non raggiungere, per sordità della nostra società, i principali obiettivi morali che si prefiggono; e non solo morali. La situazione tornerebbe al punto di prima, con una più grave involuzione, che coinvolgerebbe più gravemente il potere politico che ha avuto sì scarsa sensibilità nei confronti dei giovani delle università.

Una coltre di conformismo gravava da anni su questa nostra società, ottusa beata nei suoi consumi, felice di avere mummificato quanto di vivo la Resistenza aveva suscitato (quanti pochi, anche comunisti erano riusciti a considerare la Resistenza — diciamo i comunisti che non vi erano passati attraverso o non vi erano stati dentro — come una serena commemorazione), di avere addormentato gli operai con frigoriferi, cucine, lavatrici, etc.; era la società che sognava l'opulentismo, la società che guardava beatamente alla Svezia, la società del centro sinistra (Herrera, al posto di Marx, è stato detto; ma anche l'aspirapolvere al posto del pensiero, la 125 al posto del cuore e della «persona»). Moriva la «persona». Noi dobbiamo ringraziare i giovani di cercare di salvare la «persona» come abbiamo sempre ringraziato i resistenti al fascismo e al nazismo.

La propaganda intorno ai prodotti, agli oggetti, alle cose aveva schiacciato ogni interesse intorno all'uomo, il nostro umanesimo era diventato quello delle lavatrici. Naturalmente col qualunquistico pretesto di dare valore all'economia (prima rinnegata quando veniva spiegata come « struttura » dal marxismo) e alla produzione sempre calpestata e svergognata di fronte all'Europa più civile, sempre ricordata con retorico orgoglio di passatismo di fronte alle libertà vere, concrete, della più civile Europa).

Nasceva, nel quadro delle lavatrici, la lotta contro l'ideologia; la lotta antideologica, fatta in nome della verità della superiore eterna verità, era in sostanza la lotta contro il marxismo, era il richiamo a «qui non si parla di politica o di strategia, qui si lavora». L'antideologismo era il fiasco completo del pensiero, l'opposizione alla manifestazione dei contrasti era (ed è, perché esiste violento) l'illiberale soffocamento delle idee: in luogo delle ideologie erano consentite le sociologie non ideologiche, quelle del benessere, del tempo libero, del feticismo. (…) Le ideologie vanno studiate nel loro sviluppo storico e non considerate astrattamente nell’alternativa di verità e menzogna: le ideologie sono la storia stessa e non possono essere sotterrate o illudersi che si possano sotterrare.

 

Scrittori e impegno

settembre 1965, da Lettere Vanitose

Dire una cosa e farne un'altra, moralizzare a parole e corrompere coi fatti sembra essere anche nelle patrie lettere una tradizione contro la quale si batterono sempre gli scrittori impegnati: gli uomini del Risorgimento, prima gli illuministi, poi i movimenti più avanzati del Novecento.

Nella dilatazione degli illusori benefici della cultura di massa gli scrittori meno provveduti del nostro tempo cercano di pescare adulterando concetti e sentimenti, ripudiando l'unità del pensare e dell'agire, rifugiandosi sotto le insegne dei grandi editori e dei loro apparati pubblicitari, della grande industria, delle pubbliche relazioni, dei partiti politici, dei gruppi di potere. Il nostro non è fatalismo né moralismo, ma individuazione di situazioni di costume.

Pertanto la nostra simpatia va sempre, più che ai veri letterati, agli scrittori etico-politici, ai critici come De Sanctis, Croce, Luigi Russo, a coloro che amano l'impegno ma non il «comunque impegno», che sanno avere chiara l'idea di cultura di massa, la quale non è aura economica, quella diffusa dai tempi, dalla tecnica, su taluni gruppi e individui, non su tutti gli individui. […]

Giuseppe Parini scriveva nel discorso Sopra la carità a proposito dei vizi e delle debolezze di vanità degli uomini di lettere: «La vera gloria è quella che o presto o tardi segue i benefici fatti dall'uomo all'altro uomo avendo di mira solo il pubblico interesse », l'«utilità e il vero». I maggiori «pregiudizi» alla società vengono causati «da quegli uomini di lettere che, privi dello spirito della carità, da nessun altro motivo sono spinti, fuorché dalla curiosità e dall'ambizione ».

 

La bagarre dei premi letterari

settembre 1965, da Lettere Vanitose

Giorgio Caproni, il poeta livornese tra i più vivi e delicati del nostro tempo, così scrive della bagarre dei premi letterari: «Come si avvicina un premio ritenuto importante o "gadollo", il telefono non ha più tregua. Tutte le ragioni sono buone per mendicare un voto: l'amicizia sviscerata, la famiglia a carico, la tarda o troppo giovine età, il parente malato; ed è veramente pietosa tale questua spesso indiretta da parte di scrittori che per la loro stessa funzione dovrebbero essere i primi a dare il buon esempio di serietà e di distacco. Troppi scrittori par ormai che mirino unicamente al "successo", alla grande tiratura, ai soldi, e davvero non capisco come, allora, non preferiscano fare i cantautori, pei quali successo e introiti son tanto più facilmente conquistabili, grazie ai cosiddetti mezzi di diffusione della cultura, così perfettamente attrezzati».

 
 

dalla Introduzione
di Ferruccio Monterosso al volume:
Lettere vanitose
Soveria M. , Rubbettino, 1985

Bersaglio principale di queste pagine è l'antica - ma, ahimé, sempre risorgente - figura del letterato futilmente compiaciuto e propagandista di se stesso, che magari ostenta modestia ma che in pratica si affaccenda sempre nella viziosa ricerca di tutto ciò che possa porre in risalto le sue doti (più presunte che vere). Dire in un modo e agire in un altro, «moralizzare a parole e corrompere coi fatti» (p. 9), ripudiare «l'unità del pensare e dell'agire» (ibid.), l'«armonia di vita e di pensiero» (p. 66): questo il cattivo esempio che viene da chi, dedicandosi alle lettere, dovrebbe (per ciò stesso) fornire invece una lezione di eticità. (continua) >>> Sono le anime belle gli idoli polemici di Piromalli: gli estraniati dalla vita reale, che delibano con voluttà le loro melodrammatiche lacrime, che - equivocamente rannicchiati dietro lo schermo del sentimentalismo - covano in effetti un incallito conservatorismo e in più dissimulano la vocazione alle più spregiudicate arrampicature.

Tagliante e impietoso è Piromalli verso tutta una serie di mali morali quali: la «sottoletteratura che si ammanta di nobili sentimenti e che, invece, rappresenta il vuoto assoluto» (p. 76), pneumatico (diremmo) delle idee; i neonipotini di padre Bresciani; i seducenti apparati dei magnati dell'industria culturale; la vorace corsa al successo, alla grande tiratura, ai soldi (al vecchio adagio «carmina non dant panem sed aliquantam famem», pare essersi sostituito il nuovo «pecunia non olet»); la bagarre dei premi letterari; la fasullaggine di troppe pseudonorificenze al merito (sic) letterario. Spuntano - come funghi - zeppe di versi penosamente esilaranti, aureolate da cornici di fatua mondanità; e non è difficile imbattersi in proposte di questo tenore: « con mille lire per gli abbonati... e con duemila per gli altri si può partecipare all'allestimento d'una "magnifica enciclopedia" » (p. 201)!

Mali che riflettono, dentro la repubblica delle lettere, la crisi più vasta della società in generale, affetta da opportunismi d'ogni risma, da pietismo sulle miserie umane, dalle degenerazioni della burocrazia che tutto «riduce a cavillo, a forma, a piccolo giure, pur di mantenere i privilegi» (p. 200).

E non si tratta di frecciate vaganti nel generico, perché Piromalli chiaramente precisa di volta in volta a chi esse sono dirette, approntando «specimina di vacuità» e «schidionate di tangherismi» (pp. 117-118): lasciamo al lettore il gusto delle verifiche, pagina dopo pagina. Si vedano ad esempio le osservazioni formulate sul conto di Moretti (pp. 204-205, 207-208 ecc.) e Silone (pp. 3, 8, 10 ecc.), Cassola (p. 2) e Bacchelli (ma si veda l'analisi su un episodio del Mulino del Po, nel volume piromalliano Dal Quattrocento al Novecento, 1965, pp. 169-174). E ancora, quanto è detto di Cione (pp. 3-4) e Tecchi (pp. 5-7), Sciacca (pp. 209 e segg., 274) e Spirito (pp. 7-8); circa Arbasino, pur intelligente, «nulla fa o scrive o dice se non per fare bella figura presso i borghesi» (pp. 4-5).

Non si deve, comunque, affatto pensare che la critica di Piromalli sia sempre polemica corrosiva e stroncatoria: essa tributa anche doverosi meritati riconoscimenti, ma asciuttamente, senza sbavature.

Sfilano infatti, davanti alla nostra attenzione partecipe e interessata, nomi di istituzioni gloriose (si pensi alla biblioteca Labronica di Livorno) e figure di persone che incarnano proprio l'antitesi della vanità. Leone Ginzburg ad es. riponeva la fonte suprema della legge nella coscienza morale, per cui ciascuno è legislatore di se stesso (memorabile quanto scrisse su di lui Norberto Bobbio, pp. 11-12 e 58-60); e «in tempi di formalismo estetizzante Ginzburg trattava problemi di filologia per giungere alla storia dell'opera d'arte)» (p. 60). Su questo tema della metodologia della critica letteraria, salutare è in Giuseppe Petronio (direttore di «Problemi», sul cui recente numero 71 Piromalli ha condotto una analisi degli scritti di Garibaldi), l'opposizione al « tecnicismo privo di storicità, al filologismo deteriorato dal buio della clausura» (p. 50).

Inoltre: se di Alba De Céspedes è additata la «lezione di modestia e di riservatezza» (p. 4), a sessant’anni di distanza abbiamo ancora molto da imparare dall'esempio di fierezza dato da Siro Attilio Nulli che nel 1926 perse la cattedra, subì persecuzioni e scrisse una inequivocabile lettera al Ministro (pp. 10-11). Quanto a Lorenzo Giusso, Piromalli pronuncia (a un decennio dalla scomparsa) un documentato elogio delle «sue grandi qualità di hidalgo spagnolo e meridionale»: eppure «non fu mai stimato un'acca dal mondo della cultura italiana» (p. 42)! Ammirazione va pure accreditata ad Antonio La Penna, del quale con vivida immagine si dice che «con libertà di pensiero brucia non incenso ma nitrato soprattutto sui problemi del Sud» (p. 255).

Nell'ambito, invece, più squisitamente poetico opera Maria Luisa Spaziani, che con Utilità della memoria (1966) ha ridato consistenza di timbro, nel segno del simbolismo e della lettura di Montale, alla lirica amorosa: che si era estenuata nell'astrazione e nella cantata popolaresca (cfr. pp. 55-56). E se Natale Visentini nei versi Incontri e scontri del 1970 fa utilmente la satira della mediocrazia, Nicola G. De Donno dal canto suo, nei 199 sonetti di Cronache e parabbule (1972), «assume veramente l'anima del popolo, ben diversamente da quanti, borghesi per costituzione, si travestono da popolani» (p. 269).

Qua e là Piromalli detta necrologi, che non sono mai encomiastiche esercitazioni di prammatica ma occasioni di ripensamento critico, e riguardano persone di differenti fedi letterarie e politiche, ora amici ora avversari. Ispirata da affetto la rievocazione del pittore Edoardo Pazzini (nipote di Norberto), assai dotato sia umanamente sia artisticamente. Qui Piromalli ci riporta in quell'area di interessi romagnoli che egli ha, come critico e come uomo, coltivato con doviziosa solerzia (cfr. il suo volume Società cultura e letteratura in Emilia e Romagna, 1980: di cui soprattutto significativi ci paiono i primi tre saggi su Gli intellettuali presso la corte malatestiana di Rimini, Illuminata Bembo e Società e letteratura estensi a Ferrara): e ci rintoccano nell'anima le note diffuse nelle insolite pp. 206-207, ove la suggestione idillica del paesaggio di Romagna fuori da ogni convenzione oleografica, si fonde con una disincantata attenzione alla amara vicenda umana che si è svolta in quella terra: «diecine di generazioni di contadini e di lavoratori... deboli e preda dei più scaltri ».

Ancora: dai cattolici Marcazzan (che per dignità si dimise da presidente della Biennale veneziana, p. 44) e Apollonio sempre baroccheggiante (cfr. p. 216), si passa ai «laici» Raffaele Ramat scolaro di Russo e caso notevole di compenetrazione fra studioso e uomo (pp. 44-45) e Galvano Della Volpe: il quale «al valore fantastico della metafora... venne sostituendo il valore anche logico dell'immagine,... in modo da assegnare all'arte un valore anche intellettuale e non soltanto lirico» (p. 116).

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Nell'ampio quadro di interessi per i problemi della società e della realtà che è il libro di Piromalli, non poteva naturalmente non prendere posto una adeguata e assidua attenzione per la situazione di uno dei gangli più importanti della vita nazionale: la scuola, della quale il Nostro, anche come ispettore centrale del Ministero della Pubblica Istruzione, possiede una esperienza qualificata e aderente.

Fra la ricca messe di considerazioni consegnate a tale riguardo dall'autore al lettore, ci limitiamo a segnalare qui le critiche - che condividiamo - mosse (a p. 90) alla «inutile pedagogia dei magisteri», a chi assimila i cervelli degli studenti a recipienti da riempire di nozioni funzionali al sistema vigente, ai piani di studio influenzati dall'«empirismo e dal pragmatismo anglosassone» (ibid.): la scuola vibratamente auspicata è invece quella «a dimensione di uomo» (p. 239). Un buon libro è perciò Se la scuola non muore (1970) di Elisabetta Fiorentini: animosa denuncia dei formalismi, delle angustie, dell'umanesimo senza umanità della nostra organizzazione scolastica (cfr. pp. 220-221).

Insorge invece in noi qualche perplessità - suggerita anche dalla lezione dei fatti osservati negli anni successivi al tempo nel quale Piromalli scriveva queste sue pagine - la perorata alleanza fra intellettuali e classe operaia […]. Così pure, non ci sentiremmo più oggi di criticare il corporativismo dei soli sindacati autonomi, proprio a causa di certe prove deludenti offerte anche da quelli cosiddetti unitari: non di rado infatti, a loro volta, impostati in una visione contingente e parziale o contrattualistica dei problemi sociali. Ma su queste e su tante altre questioni, il discorso resta tutto aperto e discutibile.

«Esaltare gli umili, diceva Gramsci, è un buon pretesto per lasciarli in miseria. C'era chi osservava che "la media dei contadini calabresi, anche se analfabeti, è più intelligente della media dei professori universitari tedeschi" e Gramsci notava: "Così molta gente si crede esentata dall'obbligo di fare sparire l'analfabetismo in Calabria"» (p. 205). Da questa argutamente amara reminiscenza gramsciana prendiamo lo spunto per avvertire che molta parte del libro è dedicata — e non poteva non esserlo — alle cose e ai problemi calabresi. Piromalli sottopone alla nostra riflessione una Calabria spoglia d'ogni retorica, «assetata di tutto, affamata di tutto, derelitta fra le regioni italiane» (come leggiamo subito a p. 1), ma al tempo stesso « lottatrice indomita e non rassegnata e vinta» (p. 57), e fornisce criteri storico-critici utili a cogliere adeguatamente le peculiarità culturali etiche religiose della regione (cfr. p. 67).

Quasi a suggello di tutto il volume, quindi enunciando un significato paradigmatico che travalica la dimensione regionale (la quale va perciò letta nel contesto non solo del «Sud chiuso e pensoso», p. 239, deluso e divaricato dal Nord, ma anche nazionale e internazionale), proprio nell'ultima pagina Piromalli dice chiaramente quale sia e dove stia l'esatto opposto della autentica calabresità. Discorrendo di premi letterari nella sua regione, l'autore dice senza mezzi termini che essi sono « il pretesto offerto a chi organizza queste scemate per radunare le autorità, lisciarle e adularle »; e chiede: « c'è mai stato un emigrato tra i premiati? C'è mai stato un popolano? C'è mai stato un artigiano? Un maestro elementare? Un ferroviere?». Risposta e conclusione: «No: sempre dei presidenti di questo o di quello, uno con danaro per intenderci, meglio se con danaro e potere. Premi antipopolari per eccellenza e camuffati come premi di attaccamento alla propria terra» (p. 282).

Di contro al frivolume e al filisteismo comunque ammantato, e nel netto rifiuto d'una calabresità vista angustamente come omologia di eccesso folcloristico e dialettale, Piromalli addita - del mondo calabrese - il versante attivo positivo progressista, ed è un versante illustrato non solo da quelle stelle di prima grandezza del firmamento culturale italiano che rispondono ai nomi, fra tanti altri, di Cassiodoro e Gioacchino da Fiore, Telesio e Campanella, ma anche da autori meno eclatanti ma non per questo poco significativi. […]

E uno degli ultimi libri di Piromalli si intitola appunto Letteratura e cultura popolare (Firenze, 1983), col quale l'autore prosegue le sue assidue indagini su aree culturali locali; Piromalli si ispira concretamente al criterio che la storia della letteratura italiana non può assolutamente prescindere dalle stratificazioni differentemente articolate delle culture periferiche, le quali spesso contestano l'ufficiale ed egemone cultura tradizionale rispetto alla quale esse possiedono pari dignità; il che peraltro deve porre in guardia dal folklore e dalle etnologie estetizzanti che di fatto camuffano la cultura popolare autentica. […]

Anche a proposito della Calabria i fatti letterari non risultano mai scompagnati - nelle pagine di Piromalli - dal relativo contesto politico-sociale: e allora l'autore analizza il problema del capoluogo, i gravi disordini (individuandone le responsabilità) verificatisi quando si costituì l'ente Regione, la vicenda del «boia chi molla», le preoccupazioni di chi teme di perdere i pascoli clientelari, la dequalificazione politica.

E bisogna inoltre darsi da fare per la salvaguardia di quel patrimonio di tradizioni popolari linguistiche culturali che sono i molti paesi albanesi (cfr. pp. 114, 199-200) e le comunità greche della regione: infatti, «gran parte della fisionomia della Calabria deriva da quei greci che sono stati lasciati sui monti nell'incultura e nella povertà» (p. 256). […]

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Vanno anche riguardate le Lettere vanitose sotto il profilo dei particolari esiti stilistici nei quali le proposte del nostro autore via via si compongono comunicandosi — tangibilmente — al lettore. Già, appunto la concreta tangibilità pare essere la saliente nota distintiva del discorrere piromalliano: che infatti traduce i ficcanti e mai reticenti argomenti ideo-metodologici in scelte lessico-sintattiche inconfondibilmente sbalzate. Se il nostro scrittore ci consegna cose più che non dica parole, anche queste importano perché scolpiscono nella nostra attenzione soluzioni espressive personalissime e non dimenticabili.

Piromalli assume sempre, tutte intere, le sue responsabilità: non predica in astratto né moraleggia uggiosamente, il suo stile è scevro di qualsiasi lenocinio letterario, le sue pagine dipanano una galleria di esempi plasticamente evidenti. Così troviamo avverbi come «malandrinescamente» (p. 117), infiniti presenti quale «mafioseggiare» (p. 198), aspramente deplorate sono le mene dei baroni universitari che «cattedratizzavano i loro generi e i loro tirapiedi» (p. 257); e se «Reggio e la provincia... l'hanno cianciminizzata» (p. 197), è anche da notare che «fatta l'Italia, le vecchie classi dirigenti borbonizzavano coi briganti (quando venivano le idee francesi i vecchioni sanfedistiggiavano)» (p. 196). Non manca poi un giornale corporativo di scuola media sul quale il direttore «pubblicizza la sua avvocatezza» (p. 240) ecc. ecc.

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Infine, la prospettiva dischiusa da questo libro, proprio per i molti angoli visuali che dinamicamente concorrono a sfrangiarla, fornisce un contributo all'interpretazione critica del momento storico che stiamo vivendo. Così, il dito è messo su certi aspetti importanti del quadro sociopolitico di questi decenni, quali ad es.: il moderatismo del centrosinistra degli anni '60, il dramma della guerra nel Vietnam, luci e ombre del sessantottismo; quanto al socialismo cosiddetto reale, esso pare non essere andato oltre la fase tecno-burocratica, sì che anche la classe operaia dei paesi dell'est risulta disciplinatamente inquadrata in quella organizzazione economico-statale...

E si potrà certo dissentire da questa o quella affermazione piromalliana, come da qualche apprezzamento un po' rigido o schematico o sommario; ma non si può non essere d'accordo con l'autore quando, all'indifferenza e all'insensibilità del qualunquismo e alla brulla impotenza del fatalismo remissivo, oppone una forte fibra di realismo e di concretezza costruttiva. Il passo del libro che a nostro avviso smaschera con più veritiera diagnosi l'abbaglio dal quale la gente è fuorviata, è il seguente: «Tutta l'Italia meschina e vecchia viene ricoperta di denaro per restare quale è, tra benedizioni, lotterie, rischiatutto (...) con quel povero Isnardi che se la gode a infilare risposte e a intascare denaro di tutti (a decine di milioni) istupidendo l'Italia già dadaumpa e canzonizzata, rimbambita da minoprie e carrà e inter-juventus » (p. 259).

Che il popolo sia democraticamente libero di pensare e decidere con la propria testa, è troppo spesso solo una pia illusione. Ecco la nostra società sbagliata, la nostra degradazione morale. Infatti, non è violenza solo quella che esplode nelle aggressioni a mano armata, nella criminalità comune e politica seminatrice di sangue e di morte fisica: c'è anche un'altra violenza, più sottile e subdola ma non per questo meno perniciosa ai fini di un pauroso deterioramento della cosiddetta «qualità» della vita.

 

da: Lettere vanitose,
ossia la passione civile di un critico scrittore

di Ettore Mazzali

in: Studi in onore di Antonio Piromalli
Napoli, E.S.I., 1993

Lettere vanitose in senso attivo e traslativo, cioè lettere sulla e contro la vanità. E un titolo che ci richiama per la sua pregnanza sintattica alle lettere «odorose» di Lorenzo Magalotti. Dunque lettere polemiche che hanno per bersaglio il letterato accademico, le Accademie Tiberine, che contrabbandano chiacchierate inutili e insulse quali discorsi di civiltà, che ricoprono gli ozi, le stoltezze e le inerzie morali con i panni della mediocre letteratura, e tuttavia si affaticano a conquistarsi meriti sociali e premi fasulli.

[...] Libro tessuto di documentazioni serrate e di bersagli dichiarati, esso svela (continua) >>> a tutto tondo i letterati perditempo e cortigiani, appena che la loro personalità riesca a superare l'anonimato e l'intruppamento nel gregge delle comparse «senza qualità», e sono allora i Berto, i Cassola, i Silone, gli Arbasino, i Fortini e così via, e anche nomi consacrati vengono ridimensionati perché a un certo punto della loro carriera tradirono e comunque vennero meno alle ragioni vitali che pure avevano ispirato le loro prime opere, e sono nomi quali quelli del decadente Moravia («Moravia [...] rimane il poeta di uno stato d'animo di indifferenza di quaranta anni or sono, il rivelatore dei vizi della borghesia, ma non può essere il poeta di un mondo più coraggioso, più aperto, più nuovo, più rivoluzionario», p. 78), Moretti perpetua il lassismo, il lagnismo della vecchia Italia che non vuole avere responsabilità, l'Italia delle tonache, delle zitelle, della falsa letteratura, p. 168), Pasolini, Tecchi, Bacchelli, Prezzolini, Ugo Spirito, Salvador de Madariaga, Francis Mauriac. Anche Montale ha cominciato a compiacersi di se stesso, a narcisizzarsi: «Qui non è in discussione il poeta, da noi stessi esaltato e studiato come testimone storico dell’antidan-nunzianesimo e del linguaggio nuovo, ma quel poeta non è continuato dall'uomo di oggi, il quale perde tutte le ottime occasioni che gli si presentano per non offrire una fisionomia poco compatta e coerente, tanto diversa da quella del tempo in cui Montale era il simbolo di una protesta e non di un compiacimento» (p. 147). Il letterato inerte o conformista rifiuta la realtà con la quale lo scrittore apre invece un necessario rapporto interpretante e operativo; e s'intende la realtà storica, che si realizza e si fa concretamente attiva penetrando nei tessuti sociali dell'uomo, cogliendo l’uomo-individuo nel suo farsi collettività, attraverso anche l'ideologia positiva, cioè una fede laica e razionale che presiede all'interpretazione del reale.

A questo punto il discorso di Piromalli si allarga in due direzioni. Nella prima i suoi interessi dilagano oltre la letteratura e investono direttamente la vita politica e civile: di qui la sdegnata reazione d'ordine morale e intellettuale contro la progressiva degradazione e deformazione della società italiana del dopoguerra, che pure inizialmente la Resistenza aveva avviata a destini progressivi: l'imbastardimento della classe politica sotto l'urgere del clientelismo, lo svuotamento democratico con la paralisi del Parlamento e delle libere iniziative regionali, la proletarizzazione di sempre più vasti ceti sociali contrapposta all'arrogante e ostentato arricchimento degli speculatori e degli evasori fiscali, l'appiattimento culturale sotto l'incalzare dei «mass-media», e in forza dell'apparato del consenso la depauperazione delle reazioni critiche da parte dell'individuo, divenuto mero assorbitore di dati codificati e di comportamenti coatti.

Nella seconda direzione la calabresità di Antonio Piromalli, calabresità intesa non soltanto come carità del natìo loco, ma come individuazione etnico-culturale, trova un campo circoscritto entro il quale dar forza di testimonianza e di documentazione al suo discorso; lo trova nella sua Calabria, terra di tradizioni culturali nobilissime, di impulsi sani e generosi, di uomini e scrittori eccellenti, amanti della realtà e della verità, ma anche di devianze mafiose, di clientelismi, di subordinanze, di viltà. Proprio nei termini ravvicinati di questa sua regione - tutta da soffrire nel bene e nel male - Piromalli acquista un'altra tensione morale e intellettiva nel rispondere agli incontri o agli scontri, magari apparentemente occasionali - l'uscita di un libro, un fatto di cronaca, un necrologio - con un libro o uno scrittore o un uomo politico o un amministratore o un organizzatore di cultura. Il centro etico e intellettivo che unifica (e con quale vigore!) la diaspora delle occasioni di discorso è sempre lo stesso: si addicono all'uomo integrale la coscienza operante e interpretante della realtà, la logica razionale e, in campo etico, la lealtà e la dignità educata, dunque il rifiuto di farsi cliente o mercenario di un protettore o assoldatore, a qualsiasi livello sociale e politico.

Forse queste lettere si potevano anche intitolare Lettere calabresi e altro, dichiarando nello stesso titolo le ragioni calabresi del libro. Si aprono accanto ai franchi riconoscimenti delle virtù e delle realtà positive calabresi larghi spiragli aperti alla speranze in un futuro migliore, per esempio la fondazione dell'Università: « L'Università è un fatto di fondamentale importanza per la nostra regione, essa porterà una culttura più moderna, farà scomparire il provincialismo recando la scienza in sostituzione della ripetizione, dell'imparaticcio, dello scolasticismo, delle cose dette per sentito dire, di seconda mano» (p. 79). E più in là: «Leggiamo con piacere lo statuto dell'Università calabrese, veramente moderno e collegato con la realtà culturale e materiale della Calabria [...] Fra diversi anni la frequentazione scientifica di tali discipline potrà fare scomparire la superficialità culturale e critica che caratterizza oggi la nostra regione e potrà fare scomparire il campanilismo iperbolico perché ci si sarà avvicinati a una misura scientifica e critica di valutazione anche nei confronti delle altre culture» (p. 248).

Un secondo spiraglio è aperto dalla nuova collana critica su autori e momenti della letteratura calabrese: «Ma a noi piace essere dei 'Kalkenteroi', lavoratori dalle viscere di bronzo, ci piacciono questi lavoratori e non i giornalisti, i cronisti, i ripetitori. Ci piacciono le persone preparate, i tecnocrati della letteratura, gli scienziati dello stile e della poetica, della lingua e della filologia [...] In questi studi dovranno essere ripresi i temi critici degli studiosi del metodo storico e della critica idealistica per portare avanti i problemi in armonia con i progressi della storiografia letteraria nazionale; saranno banditi l'esaltazione apologetica, localistica, la retorica, il moralismo, il giornalismo, il personalismo, la polemica non legata al problema, il regionalismo che si contrapponga alla cultura nazionale, a quella europea» (p. 40).

Consola e tonifica anche il fatto che in Calabria esista pure «una disposizione a guardare realisticamente, anche nell'ambito della fantasia, la vita e i problemi», come rivelano i testi presentati dai nuovi poeti per un premio di poesia, quello di Praia a mare, nel 1969 (p. 149): e i problemi sono quelli dell'emarginazione, del dolore, della giustizia, del riscatto. Rimane ben vivo in Calabria un filone campanelliano, dunque vi opera tuttora una feconda tradizione storica culturale.

Accanto a questa l'altra Calabria in negativo, della quale non ci si stanca di deplorare il clientelismo e la mafia quali forze corruttrici e retrograde: «le forze più retrograde sono capaci di fare scendere in piazza un paese per interessi sanfedisti, di alimentare la lotta divisionistica fra le province, di suscitare pseudo-problemi privi di concretezza» (p. 129). La nota risale al 26 aprile 1969, e sembra voler preannunciare la sollevazione di Reggio della quale e del suo leader Ciccio Franco alcune di queste lettere discorrono con sdegno e amarezza nel 1971. Grande a questo proposito è la responsabilità degli intellettuali e degli scrittori vili per conformismo e per adulante subordinazione, «spumosi di retorica classica, contaminatori dello spazio bianco della pagina, mendicanti di premi letterari e di miserabili briciole, corrispondenti di giornali di destra [...], esaltatori dei politici locali» essi «non esistono e starnazzano sperando di esistere» (p. 145). A rispecchiare la «Calabria grande e amara» stanno invece i Rèpaci, i La Cava, gli Strati, i Seminara, i Pasquino Crupi. In Strati vibrano i problemi drammatici della Calabria, in Seminara si rispecchia la Calabria dolorosa e combattiva.

Abbiamo prima accennato a un allargamento del discorso di Piromalli nella direzione calabrese e in quella politica. Ma si potrebbe anche osservare nella raccolta di queste lettere un movimento contrario, ugualmente legittimo, tanta è l'agibilità strutturale e tanta la mobilità delle occasioni di discorso. Si potrebbe anche dire che la tensione e la passione calabrese coinvolgono a tratti tutta l'area nazionale e coinvolgono accanto alla culturale l'attività politica. Molti gli appunti sull'Italia in negativo, per esempio sull'oleografia nazionale che cerca di ridimensionare l'alta tragedia vietnamita attraverso il filtro provvido della carestia indiana (pp. 18 e 108), mentre il fatto del Vietnam esige la condanna senza riserva dello imperialismo aggressivo degli Stati Uniti d'America, e delle dittature da essi promosse e sostenute in tutti i continenti sotto le presidenze di Kennedy, di Johnson e di Nixon («gli Stati Uniti sempre pronti a finanziare i Trujilli di ogni Stato», p. 18): sul secondo presidente si legge anche una pagina divertita (pp. 30-31). L'oleografia nazionale comporta mancanza di energia interiore e di idee: « nella nostra traballante penisola del centro-destra chiamato centro-sinistra le idee e le ideologie sono ormai come dei relitti di un naufragio» (p. 23). La coltre del conformismo grava da anni sulla società italiana, « ottusa beata nei suoi consumi, felice di avere mummificato quanto di vivo la Resistenza aveva suscitato [...], di avere addormentato gli operai con frigoriferi, cucine, lavatrici [...] Herrera al posto di Marx [...], l'aspirapolvere al posto del pensiero, la 125 al posto del cuore e della persona» (p. 89). Quando Giovanni Russo, intelligente giornalista di destra, attribuisce la colpa delle alluvioni che affliggono il nostro bel paese e delle altre catastrofi cosiddette naturali al «nostro carattere nazionale », avrebbe dovuto andar oltre e sprofondare il bisturi in questo «carattere» (p. 29). Contro la superficialità o, peggio, la malafede e la faziosità dei giornalisti Piromalli è uno spietato moralista: la pagina contro Scalfari e Jannuzzi, tanto più perseguibili quanto per certe loro più autentiche istanze progressiste e radicali (pp. 80-81), le pagine contro il «Resto del Carlino», che è il quotidiano o l'organo degli agrari padani (giudizio ripetuto come un ritornello), contro il «Telegrafo», «un tempo glorioso, oggi decaduto perché entrato a far parte dell'impero di Monti» (p. 161), e contro il «Tempo» romano che distorce la verità ed esalta per esempio l'apparente imparzialità e neutraltà dei giudici soltanto quando esse giocano parzialmente in favore dell'estrema destra (p. 160). Dai giornali alle riviste smidollate (la «Fiera letteraria», «mencia, asfittica, tubercolotica e onanistica di Diego Fabbri», p. 60) e le accademie inutili (pp. 39 e 77). L'ingegneria del consenso ha inventato anche fra le sue diaboliche trovate, la formula per deformare e trasferire la passione autentica e salutare della gente nel culto divistico dei «grandi» dello spettacolo e degli atleti, corridori o calciatori ch'essi siano (p. 13), sicché questo divismo deteriore è divenuto una categoria mentale di oggi. Anche la critica letteraria «non ha più una guida»: spentasi l'egemonia crociana, è venuto il tempo del parassitismo dell'accademismo e delle corbellerie, al fondo delle quali si riscontrano «l'immobilismo, la quiete, la famiglia, la patria, la religione: le finzioni di esse» (pp. 161-162). Del ceto politico, Piromalli passa in rassegna alcuni squallidi campioni, spalle dei mali governi o sottogoverni nazionali, esponenti della non-azione e del non-linguaggio, della facciata retorica e paternalistica per analfabeti politici, patroni di consorterie clientelari, gli Emilio Colombo, i Luigi Gui, gli Ugo La Malfa, gli Aldo Moro, gli Amintore Fanfani (costui espressione del vecchio e del nuovo fascismo italiano: « il fascismo di Fanfani non è un fatto casuale ma è un appoggio ben consapevole dato prima al partito fascista, e che ha consentito all'aretino di ascendere alla cattedra universitaria, poi alla classe padronale sotto il segno dello scudo crociato», p. 245). Né escon meglio dalle pagine polemiche e morali di Piromalli i baroni universitari (i baroni, non i docenti universitari che fanno il loro dovere, e ce ne sono), la cui «attività lavorativa [...] solo per una minima quantità è dedicata all'insegnamento, ma, in grandissima parte, è assorbita sovente da un'intensa attività professionale, resa più proficua dal prestigio di una ostentata dignità accademica» (p. 125). Né meglio ne escono gli scrittori che non s'impegnano sul piano etico e intellettuale e i verseggiatori artefici del vuoto mentale, dell'inerzia intellettuale, dell'irrealtà (p. 222).

Piromalli volge invece la sua simpatia di lettore e intellettuale verso gli scrittori etico-politici, verso coloro che amano l'impegno, che coltivano l'idea di cultura di massa, quella cultura che non ha nulla a spartire con la falsa cultura ricettiva imposta dalle informazioni acritiche dei mass-media (pp. 9-10). Egli mette in pieno rilievo riviste come «Generazione zero» e, per tornare alla Calabria, «Quaderni calabresi», riviste concrete, serie, costruttive, sociali. Il messaggio di «Generazione zero» («la libertà da sola non è più un ideale [...] Fu un ideale per chi andò sui monti ventisette anni fa. Ora è un'anfora vuota, che gli insegnanti devono presto riempire, se vogliono che la scuola sopravviva», pp. 168-169, 27 giugno 1970) porta in gioco la contestazione studentesca degli anni '68 e successivi, contestazione alla quale Piromalli concede pieno credito: «I nuovi religiosi del tempo nostro sono i cantori del movimento giovanile, sconsacrati dai partiti e dalle istituzioni salde e immobili, ma i veri palombari, i sommozzatori, gli esploratori delle idee nuove; essi si richiamano all'eresia perché hanno individuato nel sonno delle istituzioni la morte della vita» (p. 104). Piromalli crede in una sorta di religiosità laica, di ideologismo come motore d'azione e di rinnovamento: «sono in contestazione il passato e il presente, affinché l'avvenire sia fondato sul prestigio dei valori, non sul paternalismo e sull'autoritarismo» (p. 106). Fa suoi i giudizi di Antonio La Penna, accademico latinista, ma geniale e fervente innovatore, sul salto di qualità rappresentato dalla lotta studentesca contro la camorra accademica (pp. 90-91), ed esalta in generale tutta la letteratura di contestazione, che combatte «anche contro l'accettazione in chiave neocapitalistica dei temi della fame, del razzismo, i facili mezzi di smercio del 'supermarket' letterario» (p. 108). Chi sono gli animatori culturali? I Muscetta, gli Alicata, i Guido Dorso, gli Scotellaro, i Tommaso Fiore, i Salvemini, gli Zanotti Bianco, gli Augusto Monti, i De Ruggiero, gli Omodeo e quanti, dai liberali ai comunisti, si sono posti problemi che erano « sostanza di vita, alimento a loro volta di migliaia di giovani i quali acquistavano coscienza di dovere [...] un tributo più duro alla vita, un impegno più severo» (p. 74). E ci sono i paradigmi ideali: quelli del laicismo («laicismo voleva dire modernità, scienza, distinzione fra Chiesa e Stato», p. 162), della militanza comunista (il ritratto di Renato Costetti a pp. 81-82), cui si contrappone l'acquiescenza dei socialisti (e di Nenni loro leader) alla prevaricazione democristiana (pp. 83 e 105-106); paradigma ideale che ispira l'invito al partito socialista di assumersi una «politica di sinistra, coraggiosa, aperta, generosa, una politica che risolva i problemi di dignità civile e laica della vita italiana» (p. 137). Anche la poesia e la letteratura devono rinnovarsi: Piromalli dà il suo benvenuto alle sperimentazioni che non vanno oltre il valore documentario ma appunto sono capaci di stimolare (p. 149).

Libro dunque di passione civile e di polemica costruttiva, aperta su diverse direzioni sociopolitiche e culturali, dietro la spinta di un'attenzione pluralistica, lucida e drammatica. Lo stile è ricco di immagini traslate e di neologismi rinforzativi, quali si addicono a una scrittura-messaggio: così leggiamo della «lentocrazia» opposta a «tachicrazia» e di «tarlopatia» e «gerontopatia» (p. 84); Berto è un «plurisesterziato» (p. 9); a proposito di «mass-media» incontriamo la «spazzatura sub-televisiva e sub-radiofonica» e i «detriti radioattivi» (pp. 2-3): i «cronici traccheggiatori » si attagliano ai giornalisti impegnati soltanto a stare a galla fra le contrastanti correnti (p. 81); «mencia, asfittica, tubercolotica e onanistica» è la «Fiera letteraria» di Diego Fabbri (p. 60); «il pensiero di Ugo Spirito comincia a praticare delle dissolvenze» (p. 7); l'autore tiene a sua disposizione «schidionate di tangherismi nostrani» (p. 118); e si veda la descrizione parossistica del «sottobosco letterario» (p. 127).

Potremmo continuare a citar lessemi e idiotismi: il libro nel suo insieme ci lascia il gusto letterario di un tonico amaro ma salutare e, nonostante la sua datazione (1964-1975) proietta le sue antenne anche sui tempi più recenti.

 

Antonio Piromalli
e l'amicizia
come valore etico

da: Pasquale Tuscano, in: Letteratura & Società, nº 17-18, 2004, p. 112

"La mancanza di Antonio Piromalli nell’attività letteraria calabrese e nazionale peserà a lungo. L’affermazione quasi monotona che nessuno di noi è indispensabile è puramente consolatoria.

Piromalli era il solo che aveva l’autorità di far tacere chiunque, ignorando le ricordate ragioni metodologiche di ricerca e di studio, osasse (continua) >>> alzare la voce per gridare alla luna una calabresità tronfia e sbruffona, incapace di proiettarsi al di là del cono d’ombra del campanile. In quel caso, forte di un serrato ragionamento, sapeva essere saggiamente polemico. Difendeva insieme la dignità delle lettere e della nostra Calabria. La sua rubrica Lettere vanitose, che aveva trovato ospitalità, nel lontano 1964, nel settimanale «Il Gazzettino del Jonio», diretto da un intellettuale colto e integerrimo, Titta Foti, era un punto di riferimento imprescindibile per quanti volessero guardare ai fatti culturali con rigoroso senso storico. Cessata la pubblicazione del «Gazzettino del Jonio» con la scomparsa, nel gennaio 1975, di Titta Foti, riprese la rubrica con l’impegno di sempre, ma saltuariamente, in «Comunità Bruzia» del 1986-1989, «Cultura» del 1989, «Calabria-oggi» del 1990, e in «Letteratura & Società», la rivista quadrimestrale da lui fondata e diretta, nel 1999, per conto dell’editore Pellegrini.

Per ribadire più fermamente le istanze storiche ed estetiche del suo metodo critico, precisò inequivocabilmente le ragioni della nascita della rivista: «Questa rivista non è nata solamente per allineare contributi di studiosi valenti nei loro campi ma, soprattutto, per cercare di capire i motivi della crisi della letteratura e della società perché i due termini sono interdipendenti […]. È compito anche di queste pagine, di società e cultura, opporci al contrabbando che smercia poltiglia, il residuo degli intrallazzi tra l’ignoranza politica e quella culturale».

L’attaccamento a tale coraggiosa passione civile lo consigliò di raccogliere in volume le Lettere vanitose apparse nel «Gazzettino del Jonio» tra il novembre 1964 e il gennaio 1975. Il volume vide la luce nel 1985, e ribadì che erano dirette «contro gli idoli che ci soffocano, contro i miti, le generalizzazioni, le storture, qualche volta contro noi stessi, contro le nostre fedi e le nostre speranze».

Era persuaso che l’adulante subordinazione di tanti intellettuali, l’atavico conformismo, il provincialismo, l’imparaticcio scolastico ripetitivo, sarebbero scomparsi soltanto se si riuscisse, con la presenza, in Calabria, dell’Università, a proporre, e far radicare bene, le discipline scientifiche, le sole che avrebbero potuto rinnovare la cultura e, quindi, il costume civile e sociale. Tali discipline avrebbero fatto scomparire «la superficialità culturale e critica che caratterizza oggi la nostra regione e il campanilismo iperbolico perché ci si sarà avvicinati a una misura scientifica e critica di valutazione anche nei confronti di altre culture». Era la linea che Antonino Anile e Corrado Alvaro avevano indicato vanamente negli anni Trenta e Cinquanta del Novecento."