Questo contributo inedito ci è stato inviato da parte dell'autore per la pubblicazione sul sito.
Ringraziamo vivamente Antonio D'Elia (Università della Calabria, Cosenza)

Antonio Piromalli e la ricerca del dialogo.

 

"Dalle Muse Eliconie prendiamo l’inizio del nostro canto:
da esse che abitano il grande e sacro monte dell’Elicona,
e danzano coi piedi delicati attorno alla fonte dall’acqua
color di viola ed all’altare dell’onnipotente Cronide"
1

Con questi versi di Esiodo si delinea e si riassume in forma sostanziale, se mai fosse possibile racchiudere l’essenza di un uomo mediante parole, l’atteggiamento cerebrale e spirituale che il primo incontro con Antonio Piromalli mi produsse; e il suddetto stato si rinnova nella memoria ogni qual volta essa rivive il processo della acquisizione degli impulsi generatori della “coscienza dell’ente”. Questo processo di “mimesi del ricordo” è il frutto generato dall’incontro con chi aveva partorito qualcosa in più, con chi aveva saputo sacrificare le vanità sensazionalistiche delle parole del “momento” per concertare in un afflato unitario le istanze interiori, il programma del suo esistere nella ricerca del come le cose avvengono. Una ricerca silenziosa e, assieme, rumorosamente turbolenta.

Un incontro, quello con Antonio Piromalli, che ha segnato fortemente il mio percorso umano e culturale. Antonio Piromalli, come pochi, ha saputo-voluto fondere le conoscenze delle cose alla ricerca del senso della esistenza. Ha tentato di instaurare un dialogo profondo e continuo con la storia, con i suoi percorsi e le sue contraddizioni: primariamente con gli individui della storia, in un quadro di rigorosa connessione tra personaggi, ambienti e processo socio-economico-culturale. Il richiamo alla Teogonia significò l’ingresso nel mondo simbolico e “liturgico” della rappresentazione dell’uomo, che cammina lungo sentieri intricati, non sempre funzionali alle proprie predisposizioni naturali. Piromalli volle incontrare la contraddizione del divenire, le sue forme, i suoi passaggi serrati: il suo metodo venne costruendosi in una disamina complessiva del sistema di ricerca. Il richiamo alla classicità fu stimolo, motivo di crescita: metodo per affrontare le più “complesse ovvietà” del momento e delle sue rappresentazioni in relazione alle nuove problematiche, ma senza divenire rifugio solitario in cui cantare le lodi ad Apollo, né tanto meno spazio esclusivo per stigmatizzare le nuove “mode” sociali e culturali. Parafrasando un passo del Menone di Platone, quello riguardante la dimostrazione dell’essenza della virtù, in un nostro incontro romano, Piromalli delineò la capacità dell’uomo di diventare virtuoso, buono, onesto, mediante la scienza: ossia la conoscenza dell’io acquisita tramite un processo voluto e non affidato al caso o alla possibilità dell’azione libera (nel significato di “involontaria”) dell’uomo di regolarsi unicamente attraverso i sensi, creando perciò un vivere non-comune (non-società), capace di generare un non-senso della storia. Ho avvertito quella indicazione come fondante dell’etica di un uomo che si era imposto di regolarsi entro principi volontariamente scelti per pervenire alla conoscenza del suo stato libero di individuo e, dunque, giungere, da redento della conoscenza, ad intravedere le strade della ricerca precluse, invece, a chi non si pone in una predisposizione serena di programmatici intenti d’indagine.

Antonio Piromalli è stato il più importante letterato calabrese del Novecento ed, assieme, uno dei più autorevoli studiosi di letteratura italiana che il secolo appena trascorso abbia avuto. La sua forza intellettuale abitò nella capacità di sprovincializzarsi dai “serrami soffocanti” di una pseudo-intellettualità propria di ambienti in cui la parola cultura e il termine sapere erano (e ancora, forse, lo sono) aggettivazioni retoriche del niente. Antonio Piromalli ha riconosciuto i “legami poetici” con la propria terra, ma ha saputo sapientemente reciderli per non cadere nel futile, nel troppo ristretto intuire il sentimentale, per definire da lontano (e poi anche da vicino, ma solo molto dopo) la filialità vera con la Calabria. Ecco emergere lo spirito altamente civile (nell’accezione originaria del termine: abitatore della polis, rispettoso e sano della sua libertà) dell’esistenza, dal quale scaturiscono la ricerca, l’indagine testuale, la critica, in quanto espressioni della vita. Nei citati versi di Esiodo cogliamo la comunanza d’intenti sociali e culturali del letterato-poeta italiano e dell’autore della Teogonia. In specifico, la comunanza va ricercata nella bellezza del verso antico, a Piromalli tanto caro, perché ricondotto, attraverso il racconto mitico, al vero: verso che si abbeverava non al fantasioso ma al concreto dell’uomo. Il verso dei padri rintracciava nelle memorie, anche “falsamente inventate”, la volontà dell’artista antico di spiegare non solo la possibile natura divina quanto, o soprattutto, quella umana in rapporto al “nascosto” dell’uomo. Piromalli citò quei versi poiché in Esiodo e la “pura poesia” e la ricerca dell’uomo mediante il verso erano vicini al suo sentire la contraddizione della storia, il “Caos” ordinato che governa il cosmo. Nel tratto ancora “omerico”dell’incipit della Teogonia, Piromalli riecheggiava sì la sublimità del verso, guardando, tuttavia, in maniera decisa all’altra e più importante opera esiodea, le Opere e i giorni. In essa la tensione prodotta dai precetti morali, l’esortazione al lavoro, le regole per l’agricoltura e la navigazione intrisi del motivo inesorabile della vita, il dolore, il quale può essere vinto, però, con il lavoro e la giustizia, strutturano un canto fascinoso e concreto che può avere riflessi anche nell’animo dell’uomo del Novecento.

Alle tensioni profonde prodotte dalla indagine poetico-filosofica sul trascendente, Piromalli, da laico, rispondeva col bisogno di fondarsi sul dato empirico e da questo partire alla ricerca, anche, dello altro. Le forti “caratterialità” del suo animo venivano rasserenate dalla riflessione sottile che la educazione ricevuta gli aveva impartito e la propria mediazione intellettuale aveva garantito entro un recinto analitico i cui “limiti” erano costituiti dall’intuizione attenta, dalla deduzione rigorosa, dalla enumerazione complessiva. <<Contrario a formalismi estrutturalismi destoricizzanti e convinto che all’origine dell’arte è sempre l’uomo con il suo composito bagaglio di idee e sentimenti>>2: nell’analisi compiuta da Tommaso Scappaticci (e raccolta in uno studio particolareggiato, il più completo su Piromalli), cogliamo il criterio operativo del letterato calabrese: dell’artista e dell’uomo, se mai, l’artista e l’uomo, fossero stati separati. Piromalli si riferì sempre all’unità strutturale dell’individuo e delle sue operazioni. Le Lettere vanitose, infatti, vennero concepite come “pagine aperte” di analisi socio-culturale: pagine in cui il problema politico-sociale veniva esaminato in un modernissimo laboratorio critico nel quale l’aspetto letterario assumeva risvolti di denuncia intellettuale. Animatore di quelle pagine era un moderno Pasquino che, a differenza di quello antico, mostrava il proprio volto con vigore, come solo pochi altri intellettuali del Novecento seppero fare: perché lo vollero fare. Il letterato si riferiva soprattutto alla situazione delle masse, dell’individuo della massa e nella massa, trasformando la pagina critica in strumento non politicizzato di azione “libera d’opinione”. Tutto ciò frutto di un pensiero limpido, che allontanava i “torbidi slanci emotivi”, i sentimentalismi del momento e che Piromalli strutturò attraverso una scrittura rigorosa, per metodo scientifico e per serietà di intenti.
Il linguaggio in Piromalli fu sempre chiaro: perché scorrevole, fluido, robusto. L’intellettuale sfoderava la propria sagacia non per punire un atto rivoltogli sul lato personale o professionale (su entrambi i piani era inattaccabile) o per mostrarsi “dottamente sapiente” e distruttore dell’avversario assecondando le condizioni degli umori, ma unicamente quando si operava non seriamente entro l’ambito del vivere civile ed intellettuale. Ecco il senso ed il fine delle Lettere vanitose: esse richiamarono le responsabilità dell’intellettuale nei confronti di se stesso e degli altri uomini; e ancora, promossero il duro attacco alla politica, intesa come la forma più incapace di comunicare con i cittadini-elettori. Non “personalismi” muovevano le “terribili note” di Antonio Piromalli ma la scostumatezza di una Clodia, per esempio, prostituitasi per il potere o il mero divertimento ai danni degli indifesi e degli immotivati della vita. Nella Prefazione alla Letteratura calabrese scriveva: <<La letteratura porta i sigilli della realtà vissuta, quando si allontana da quella realtà è evasione nel platonismo, negli idealismi, nei nominalismi>>3: questo fu il progetto culturale che Piromalli portò avanti con coerenza e serietà fino alla fine. Il richiamo al pensiero di Marx, al concetto che vede l’uomo essere, in definitiva, “il mondo dell’uomo” legato, mediante l’idea del materialismo dialettico, alla evoluzione di se stesso, condusse Antonio Piromalli alla visione di un tessuto umano fattivo, operante e che si oppone al capitalismo distruttore dell’identità della persona. Nella Introduzione a Il viaggio, di Fortunato Seminara, Piromalli scriveva:

La sofferenza del popolo diventa sempre maggiore quando il potere politico non la lenisce. Il tema illuministico della pubblica felicità, del bene pubblico pone in primo piano il problema. Le grandi masse industriali e agricole dell’Ottocento sono confortate dal patire insieme (compassione) e dall’impostazione culturale umanitaria. Le immense sacche di povertà e sofferenza di popolazioni sperdute, fuori del contatto con la società, feudalizzate e annullate nella loro sostanza umana, propongono il problema dell’esistenza di una giustizia divina perché quelle masse sulla terra, pur rappresentando lo strazio assoluto della sofferenza, non esistono più. Da qui le amare considerazioni sul vivere e sul soffrire senza speranza4.

Così, tramite la pagina di Seminara, il critico rivelava l’identità, il nome della condizione storico-sociale del Novecento, soprattutto in Calabria, prima e dopo la amara parentesi fascista, che, senz’altro non aveva agevolato il progresso culturale in Calabria, così come nel resto d’Italia. Piromalli sottolineava: <<La grande miseria contadina, acuita dalla crisi intorno al 1930, contrappunta la realtà sociale della Calabria durante il fascismo che, al di là della demagogia, è incapace di affrontare uno solo - ma il maggiore, certamente, - dei grandi problemi che travagliano la regione: l’analfabetismo>>5. Dallo studio profondo sulle varie età della nostra storia letteraria Piromalli tracciò un filo conduttore di analisi: individuò (maestri gli furono le ricerche d’archivio, l’analisi approfondita del tratto storico, e, assieme, la disponibilità a non rigettare completamente le “antiche” impostazioni, pur riferendosi sempre allo storicismo aperto alla dialogicità con le altre scienze d’indagine) i punti nodali del suo metodo e vi si inserì cogliendo gli impulsi del tempo e i suggerimenti della tradizione. Degli intellettuali calabresi l'acutissimo critico esaminò i tratti e delineò le carenze effettive del “lavoro” che in realtà essi non svolsero mai pienamente. Piromalli si rivolse anche alla popolazione, non con tono pietistico e giustificatorio ma evidenziando i comportamenti e le difficili scelte, in una più che aperta denuncia polemica:
La Calabria non è centro di civiltà da millenni, è stata sempre periferica ed emarginata. I disquisitori sull’astratto [...] intendono ribadire l’inferiorità togliendo alla cultura il vigore specifico che essa ha avuto con la filosofia, con il richiamo nelrisorgimento alla tradizione delle virtù regionali e popolari ( vedi la opera di Padula in favore del risorgimento calabrese), con la protesta postunitaria contro il mondo iniquo in cui l’Italia era stata fatta a spese delle regioni più povere e maltrattate. Il cuore delle masse popolari non palpita in Calabria, come ha scritto Pasolini, nella grigia classe impiegatizia delle città burocratiche e gli intellettuali che hanno operato sempre all’ombra della grande proprietà oggi non hanno minori responsabilità di un tempo per la loro candidatura a porsi al servizio della burocrazia regionale. Da qui la loro tendenza a non prendere coscienza della realtà, a rifiutare il ruolo di intellettuale, a fuggire nel mito, nella tradizione, a indorare le età ignobili assegnando valore iperbolico ai semplici termini della sussistenza6.

Il disagio vissuto nel periodo bellico contribuì a plasmare il suo pensiero contro ogni forma d’imposizione intellettuale e fisica. Le analisi di Piromalli, dunque, non furono mai avulse dai contesti nei quali nascevano e ai quali erano destinati. Il suo studio abbracciò l’intero panorama della letteratura italiana. Monografie, saggi, scritti che vanno da Dante a Carducci, da Pasolini a Fortunato Seminara dimostrano l’ampia conoscenza dello studioso, dell’“esegeta delle cose del sapere”, del raffinato ricercatore della parola anche “dialettale” (non solo calabrese): parola, quella dialettale, che denunciava e comprendeva i differenti stati d’animo dei soggetti. La vicinanza alla filosofia antica, dalla quale aveva tratto linfa per sondare i misteri del divenire storico (Platone, Aristotele, Epicuro, Seneca), ma anche la conoscenza del pensiero moderno (Kant, Hegel, Schopenhauer, Nietzsche), consolidarono la pratica dello scavo interiore dell’anima e problematizzarono, in un complesso dialogo col passato-presente, il fine degli studi, il motivo del loro crescere e, assieme, la presa di coscienza di quella crescita. Il richiamo alla poesia ermetica, in età giovanile, e, assieme, il richiamo al verso greco-latino e all’antico verso italiano (Archiloco, Saffo, Lucrezio, Catullo, Virgilio, Orazio, Dante), nonché a quello dei poeti suoi contemporanei (Luzi, Pasolini), pur con intenti e con procedure strutturali diverse, promossero un canto solido e solare, aggressivo ed essenziale nei suoi risvolti talvolta criptici di certe note. L’accumulo di sensazioni e tensioni, “represse” volontariamente in un solo tono ritmico, rigetta d’improvviso gli slanci verso la cosa cantata: la descrizione diventa, dunque, riflessione, approfondimento, anche sonoro, per poi accorciarsi in brevi “accenni sensori”, e quasi svanire, concludersi in una breve parola.

Un canto, il suo, fatto di amarezza non saturnina: un verso generante pathos tragico per il come si viveva quella vita, quella condizione umana a volte insondabile. L’amore per la donna venne spesso reso, nei suoi versi, con un dire sciolto, moderno, che, tuttavia, sapeva abbeverarsi, quando occorreva, all’“esametro” o al “giambo”: <<Donne di latte, perla, nebbia, sangue, / rosso clamidate, / sfebbrate, tunicate, stunicate, / semidormienti “come in erba l’angue”>>.7Molto diverso il “Piromalli esiodeo” da quello appena descritto, raccontato? Assolutamente no. Alla forza del canto greco, di un greco di Calabria, fecero riscontro il grido e lo sdegno di quel greco per la comprensione, raggiunta con molta fatica, del soffio della vita (pneuma) della <<razza>> umana, che dalla terra, cantata da Esiodo, intona il lamento della renovatio culturale, sociale, politica. La solidità dell’idea del conoscere venne promossa dal forte senso di appartenenza alla terra e alle sue regole (regole, tuttavia, da riformare secondo nuove strategie culturali e politiche): ciò contribuì a delineare il tratto genetico, il DNA di un “aristocratico”, ma di una aristocrazia solo intellettuale, “garantista della libertà” di essere libera. Nella poetica di Piromalli l’espressione “democrazia” fu, quasi, sinonimo di “cultura”; cultura-libertà (consapevolezza del proprio essere e del proprio esserci) che il soggetto deve raggiungere, divenendo così mezzo per garantire la stabilità sociale e non “espressione” mutevole di e in un continuo libertinaggio. Alla sofferenza delle masse Piromalli affiancava, nella sua riflessione meta-letteraria, la bellezza delle “oscure” corti del Cinquecento o la tragica vicenda di un eroe degli inizi del Novecento, che a pieno incarnò la crisi del secolo: Carlo Michelstaedter. La poetica filosofica di Michelstaedter venne vista da Piromalli come la denuncia dell’identità capovolta dell’individuo: nel rapportare la figura del filosofo-poeta a quella di Pirandello8, il critico sottolineò la frantumazione dell’io in un terribile, “arcano” realismo, che fu motivo centrale nella letteratura del Novecento, quasi sintesi di un complesso sistema filosofico-psicologico. Una denuncia libera, pagata con la vita: lo scavo della esistenza volle raggiungere le radici, il limite originante, il vuoto riempito di vuoto, forse sondabile tramite l’esperienza etica, che, tuttavia, sembrò incapace di andare oltre.

Letteratura e vita erano avvertite come parte di unica identità, pur nelle sue più recondite armonie-disarmonie: ecco emergere lo spirito moderno del suo pensiero, che gli permetteva di accostarsi, anche, alle solitudini e alle irrequietezze drammatiche dei suoi conterranei calabresi.

È possibile conoscere il pensiero di Antonio Piromalli, formulato in silenzio e diffuso con “forte discrezione”? Antonio Piromalli riuscì a farlo comprendere poiché forzò i campi semantici dell’io e vi introdusse, in una chiara distinzione tra le strutture, la volontà d’indagare: decifrò la polisemia generante della ricerca, la indagine meticolosa del fatto senza perdersi nei pericolosi richiami della fama. Ecco perché fu realmente, oltre che un grande letterato, un indagatore del perché degli eventi e della loro origine, in quanto si sentiva parte di quelle cose. Bassani nel rispondere a Mario Guzzi disse che i poeti si occupano sempre delle proprie origini9.Piromalli si comportò, visse da poeta, perché era un poeta, uno studioso della vita, nel senso più vivo e partecipativo al bisogno dell’uomo.

Nel riflettere sulla straordinaria bellezza della tragedia greca, in specifico sull’Edipo re, in un suo soggiorno cosentino, ci soffermammo sulla straordinaria, quanto concreta presa di coscienza di Edipo nel momento in cui si soffermò e, poi, si svelò al “suo ricordo”: la sopraffazione della vita sulla vita.

Antonio Piromalli tenne sempre in mente quel terrifico verso liberatorio, crudelmente liberatorio: quel senso di sopraffazione della vita su se stessa, che, pur se in forma assolutamente diversa, richiama la condizione dell’uomo moderno, intessuta, tuttavia, da una nuova liturgia simbolica.

Alla raffinata pagina letteraria Antonio Piromalli affidò le proprie induzioni, alla poesia affidò lo sfogo di quella sua intuizione profonda e sviscerante le intelligenze dell’anima. Abitò nel rapporto della comunicazione con le sue vie l’indirizzo che Antonio Piromalli volle seguire: il letterato-poeta si impegnò a ricercare un nuovo e possibile codice per decifrare la identità del comportamento e, assieme, le “valenze dei suoi predicati”.

Antonio D’Elia


NOTE:

1 Esiodo, Teogonia, A. Colonna (a cura di), Torino, UTET, 1977, pp.60-61 ,vv.1-4.

2 T.Scappaticci, L’attività critica di Antonio Piromalli, in AA.VV., Studi in onore di Antonio Piromalli. Il lavoro critico, il magistero, i ricordi, gli scritti, a cura di T. Iermano, Edizioni scientifiche, Napoli, 1993, p. 12.

3 A. Piromalli, La letteratura calabrese, Pellegrini Editore, Cosenza, 1996, Vol. II, (I ed. 1965), p. 5.

4 F.Seminara, Il Viaggio, Introduzione e note al testo di A. Piromalli, Cosenza, Pellegrini Editore, Cosenza, 2003, p. 3.

5 A. Piromalli, La letteratura calabrese, cit., p. 5.

6 Ivi, p. 8.

7 A. Piromalli, Donne di Ferrara, in “Confronto”, n. 6, giugno 2001, p. 3.

8 Cfr. ibidem, Carlo Michelstaedter, in AA.VV. , Letteratura italiana del Novecento. Gli scrittori e la cultura letteraria nella società italiana, vol. II, Milano, Marzorati, 1987.

9 Cfr. A. Toni, Con Bassani verso Ferrara, Introduzione di M. L. Spaziani, Milano, Edizioni Unicopli, 2001.