Panorama di Maropati, il paese natale di Antonio Piromalli

Autopresentazione scritta da Antonio Piromalli all’età di 51 anni,
poi pubblicata su “Confronto”, anno XXVIII, n. 11 – dic 2002 , p. 3

Un paese della Calabria, Maropati, quasi emblema di una terra che ha sepolto l’ellenismo in un lungo e crudo Medioevo, è dolce-amaro al mio ricordo: dolce per la tenerezza degli affetti, per la bellezza di colline, campagne, fiumi dai nomi greci; amaro per la vita difficile di lavoro, di disoccupazione, di emigrazione che in esso intravedevo nei rari ritorni. Quel piccolo mondo viveva nella sua antichità di leggende, superstizioni, riti magici, nei racconti di mia madre, Rosaria Seminara, donna dolcissima, di mia zia Rosalia, una novellatrice perenne delle avventure di Fioravanti e Rizieri, delle Mille e una notte, di storie più remote di briganti mescolate a leggende di tesori vincolati da anime di defunti, di soprusi antimeridionali perpetrati dai governi postunitari, diventata personaggio di racconti di Fortunato Seminara.

La vita di un paese della Calabria era cruda come quella del villaggio sardo della Deledda di Colombe e sparvieri, rovente come nelle pagine di Seminara che da esso ha attinto dal profondo, o come nelle pagine dell’autore del Previtocciolo, narrazione che si svolge in altro paese non lontano della stessa Piana. Nessun periodo continuo della mia vita ho trascorso in esso perché ho seguito gli zii, Biagio e Giovanna Seminara, a Messina dove ho avuto come insegnanti Vittorio Lazzaro, Stefano Bottari, Vito G. Galati, Carmelo Previtera, Vito Guzzetta, tutti oppositori del fascismo.

Croce era il punto di orientamento, e anche per me che coltivavo studi eruditi e studi di estetica, interessi artistici fin dall’adolescenza, unendo l’amore per il mondo greco e quello per il mondo moderno e la poesia ermetica. Erano gli anni di La poesia di Croce quelli in cui conobbi Luca Pignato, Vannantò, Galvano Della Volpe, Mario Spinella, gli intellettuali di Corrente e gli intellettuali e poeti di ispirazione fascista Salvatore Pugliatti, Alfredo Orecchio, Francesco Tropeano. Lo zio Biagio, militare, valoroso combattente della Terza Armata nella prima guerra mondiale, non mi educava al fascismo (nella sua biblioteca di origine settecentesca e ricca di opere di teologia e storia militare avevo fatto indigestione delle opere dei fratelli Bocca e di romanzi del secondo Ottocento), il gusto per gli studi impegnati mi scopriva la superficialità, la grossolanità del regime.

Degli studi accaniti della tarda adolescenza ricordo quelli esaltanti delle opere del Croce, quelli del Fogazzaro compiuti nella Biblioteca Bertoliana di Vicenza, in anni in cui preparavo la tesi di laurea, mentre la guerra batteva alle porte e conobbi Raffaello Viola il quale corresse il mio incipiente fogazzarismo, Antonio Dalla Pozza (da me riveduto, con grande gioia ancora alla Bertoliana, trent’anni dopo ma poco prima della sua morte), Gaetano Trombatore, Arturo Pompeati, Piero Nardi (freschissima ancora la memoria del primo incontro a San Vito di Cadore, alla Villa Paradisia!). Ripassavo gli innumerevoli scritti e le carte di Sebastiano Rumor, l’eruditissimo abate vicentino, custode dell’archivio fogazzariano, e aggiornavo la sua bibliografia intorno al Fogazzaro mentre tracciavo una storia della critica intorno al romanziere.

Avevo pubblicato prima della laurea su Fogazzaro un libretto sullo scrittore vicentino, ma la guerra diede un colpo ai dolci mali estetici, poetici, crepuscolari, che mi inquinavano. Rosario Assunto (che del comune tempo militare piemontese di Tortona, Alessandria, Ovada ha scritto belle pagine in una squisita Lettera su antiche memorie da me pubblicata su Maestrale), Raffaele Vallone, Paolo Rho furono gli amici antifascisti, altri conoscevo in Sardegna (Giuseppe Dessì, Cottone) in riunioni a cui partecipava Lorenzo Giusso. Ma fu la guerra fatta insieme con i soldati indigenti e scalcinati, reduci dalla Grecia, simboli viventi di una Italia misera e inconsapevole, i partecipi sodali di un antifascismo che scindeva il partito e la nazione, che si ripiegava sui mali della nazione, a scoprire le colpe di un manipolo di sciagurati legati agli interessi dei gruppi economici antinazionali. Non era definitivamente tardi, perché tanti fratelli ormai combattevano per sanare il tradimento, per salvare i paesi del Sud, il lavoro di contadini, operai, intellettuali del Nord. Il ritorno dalla guerra fu il primo incontro vero con la Calabria, poiché per due anni insegnai a Reggio. Nel fermento delle idee del dopoguerra iniziai la pubblicazione di Antidogmatica con Pietro Pizzarelli, di Maestrale con Michele Nesci, e dopo una sosta a Livorno mi trasferii a Ferrara.

La società ferrarese non era quella reggina. Reggio, decapitata nella sua borghesia dal terremoto del 1908, si consumava in una piccola cultura, sorpassata e astrattamente stralunata. Ferrara viveva ancora come “città di campagna”. La città conservava una dignità architettonica e una dignità culturale che poteva essere continuata dalle forze sociali democratiche che vi operavano. Abitavo non lontano dal nucleo della Ferrara antichissima – la chiesa di San Giorgio con il canale davanti -, in quello che era stato il Polesine di Sant’Antonio, dove era il monastero di Beatrice d’Este, vicini erano il palazzo di Ludovico il Moro, la casa del Boiardo, la casa di Biagio Rossetti e, per contrasto, il simbolo della Ferrara medievale, la via delle Volte. Le epoche passate avevano lasciato una impronta umana nella costruzione della città, così perfetta da parere irreale nelle sue lunghe vie, nei palazzi quattrocenteschi che racchiudevano meravigliosi giardini, nelle michelangiolesche mura su cui nelle accaldate notti d’estate incombeva gialla o rossa la luna, fra gli alberi punteggiati di rosse insegne di cocomeri. Oltre le mura era la pianura sconfinata solcata dal Po e dai suoi rami, dal Reno, nella quale si adagiavano boschi e lagune.

Tutta la pianura padana partecipava alle lotte bracciantili, e dura era la lotta politica a Ferrara. Anche l’impegno politico degli uomini di cultura era vivo: Florestano Vancini, Renato Costetti, Vincenzo Cavallari, Mario Roffi, Adriano Piccolomini, Claudio Varese, e i più giovani Massimo Felisatti, Fabio Pittorru, Renato Sitti, Italo Marighelli furono gli amici di quel tempo ma bisogna aggiungere Mario Pinna, Silvano Balboni, prematuramente scomparso, Luciano Capra, gli altri che partecipavano ai dibattiti vivacissimi in seno al COS di Capitini: Agostino Buda, Pasquale Modestino, Tullio Savino, Franco Giovannelli e il carissimo Bruno Cavallini, itinerante notturno alla ricerca degli angoli metafisici della città. A Ferrara ho conosciuto e sposato Vittoria, ferrarese-germanica, che dagli avi Peter Sinz e Minnie Cameron aveva derivato facies tedesca e scozzese.

In un soggiorno calabrese conoscevo, al tempo delle lotte agrarie nel crotoniate, un grande dirigente comunista, Mario Alicata, una delle personalità più vigorose della mia generazione, lottatore illuminato per problemi fondamentali e non per dispute di secchie rapite o di capoluoghi. Due anni dopo rivedevo a Messina Galvano Della Volpe e dai colloqui nasceva la struttura teorica per una nuova interpretazione dell’Ariosto. Era con noi Eugenio Turri, un lucano di mente profonda, marxista, poi morto in un sanatorio svizzero. Croce era ormai lontano, anche nelle polemiche del vero maestro che avevo ritrovato, Luigi Russo. De Sanctis – Gramsci era la linea di cultura, un De Sanctis non crocianamente revisionato ma l’interprete di cultura e società interpretate integralmente; Gramsci proponeva nuovi metodi per studiare i gruppi di intellettuali. Dopo anni di preparazione storica, iniziata a Ferrara, studiavo su nuove basi la corte estense, la cultura ferrarese, la poesia dell’Ariosto.

Questi studi, e tutti gli altri che seguirono, vennero scritti a Rimini, dove mi ero trasferito, dove è nato mio figlio Lanfranco e dove ho abitato per venti anni. Se per ciascuno noi c’è un locus (e diceva il Croce che c’era, per lui, nel cuore della vecchia Napoli) in cui le facoltà trovano un equilibrio e un’armonia, questa terra per me è Rimini e la Romagna. La via Isotta di Rimini! Una strada del centro e appartata, bellissima nelle caligini dell’autunno quando, durante la notte, vi giungeva l’urlo della sirena del porto, quando rimaneva silenziosa sotto la neve, sotto il sole.

Da essa si proseguiva per il colle del Bertola, Covignano, per San Marino o per la meravigliosa valle del Marecchia, ricca di castelli, rocche malatestiane, rupi, prati e colline. Nella via Isotta è il campanile della chiesa di Sant’Agostino con gli affreschi dei giotteschi. In quella chiesa dovette essere sepolta Francesca, a pochi passi sono il castello di Sigismondo e gli avanzi delle mura malatestiane. Anche a Rimini è, tra l’arco, il ponte, il Tempio Malatestiano, una misura ideale di città rinascimentale in cui, nell’arco dei colli, si fondevano la grazia figurativa di pittori toscani, marchigiani, emiliani, la lirica del Bertola, la poesia del Pascoli; nella biblioteca Gambalunga di Rimini ho compiuto gli studi sull’umanesimo, sul Settecento, sul Pascoli. Ma devo ricordare una più piccola, non meno preziosa biblioteca, quella di Savignano sul Rubicone, dove studiando il Bertola attraverso i carteggi di Giovanni Cristofano Amaduzzi, ho ritrovato aspetti inediti del Settecento italiano e della scuola classica romagnola.

I risultati degli studi sulla cultura ferrarese al tempo dell’Ariosto offesero, per la loro impostazione sociologica, la retroguardia critica accademica; oggi il metodo sociologico è normale, forse troppo di moda. Con quel metodo avevo studiato gli uomini e la cultura, le mistificazioni, le ingiustizie di parte. Venivo estendendo il lavoro sulla corte di Rimini con i saggi sugli umanisti, sulla poesia isottea, sulla cultura malatestiana. Il lavoro mi discopriva i legami della cultura emiliana e romagnola con la realtà e mi avvicinava sempre di più al mondo della Romagna. La vita intorno alle rive del Po, le necessità di struttura delle corti avevano i loro riflessi mediati nell’arte di Antonio Cammelli; in altra epoca il cortigiano faceva divertire le dame di Parma ed era il Frugoni. Da quelle corti, da quei centri di cultura seguivo a Napoli, Pavia, Mantova, Bologna, Forlì, Verona, Venezia, Bassano, il viaggiatore Aurelio Bertola. Non casualmente, un secolo più tardi, in quell’area savignanese era nato il Pascoli, legato, come il Bertola, alla cultura tradizionale ma, come lo stesso Bertola, innovatore di gusto, di sensibilità, di lingua. Innovatore con le Myricae come il Bertola lo era stato con le Lettere renane.

Rimini, Parma, Ferrara, le città emiliane non erano geografia ma storia e nel piccolo mondo riminese, tra amici carissimi come Oreste Cina, Marcello Tavella e altri, in una assiduità operosa di incontri e di incroci con la terra emiliana, si saldavano nel metodo e nei fini i miei interessi più congeniali. Vita e arte, umanità e stile avevano un particolare sapore nella cultura emiliano romagnola; né il gusto celebrativo né il lamento decadente o il puro stile mi attraevano; e Bacchelli barocco, Serra e il Panzini stilisti, Moretti crepuscolare erano lontani dal mio modo di sentire.

Nello stesso tempo, dal mondo della cultura emiliana mi rivolgevo, intorno al 1963, a un mondo diverso in cui la Grecia antica, Bisanzio, un lungo medioevo fatto di baronaggi ricorrenti, una struttura arcaica, punteggiavano la grande e desolata storia: quello della Calabria. In Calabria non c’erano stati Rinascimento e corti fiorenti, ma Greci, Romani, Bizantini, Goti, Saraceni, Normanni, Angioini, Aragonesi, Spagnoli, Francesi, Borboni, etc., feudalesimi e sopraffazioni, violenze e intolleranze, proteste, rivolte, utopie, sogni palingenetici e messianici. Pitagorismo, orfismo, platonismo, monachesimo, medioevo avevano prostrato le popolazioni, e la letteratura calabrese rifletteva una società che aveva espresso personalità geniali e pochi gruppi intellettuali attivi i quali avevano lottato per rendere la cultura e la vita libere da “tirannidi, sofismi, ipocrisie”. Campanella era il simbolo altissimo di questa ribellione.

Nasceva da questo abbozzo di idee il primo schema di una Letteratura Calabrese scritta con sentimento di partecipazione, come le pagine sulla cultura ferrarese al tempo dell’Ariosto. Nascevano gli scritti su Gioacchino da Fiore, su Seminara, nonché le Lettere Vanitose, con chiara volontà polemica contro il persistere del feudalesimo sociale e culturale, contro l’asservimento della cultura ai moderni baroni, contro la superficialità, le approssimazioni, i velleitarismi, le fatuità, i provincialismi calabresi, contro la scuola vecchia; e il discorso regionale si allargava, con gli studi su Parini, la Deledda, Michelstaedter, Gozzano, secondo una tendenza ideologica sempre più definita nel porre alla base degli studi il rapporto tra la società e la cultura, le testimonianze culturali delle classi subalterne liquidate da altri studiosi come oggetto liricizzato. De Sanctis, Gramsci, la questione meridionale, il rapporto tra la società del settentrione e del meridione tracciavano dialetticamente le strade dei nuovi interessi più complessivi, più storici, più concreti. La Calabria che scompariva, la vecchia Calabria (Gli ultimi della Magna Grecia è il titolo con cui Giorgio Rajani ha recentemente descritto, e con arte, con affetto e con arguzia, la Calabria arcaica, fiera e generosa) si saldava spiritualmente con la mia storia più viva e più chiara.

Mi accorgo che la richiesta autopresentazione è composta di nomi e di fatti più che di idee; ma le idee sono nei fatti e nelle cose. E forse il frutto migliore di una sperimentata educazione democratica e popolare è nel sapore, nei succhi particolari, terragni, umani, sociali, storici, che la nostra vita dovrebbe avere.

Rimini, luglio 1971
ANTONIO PIROMALLI