"Scritti corsari " e anticonsumismo
parte prima da L'ultimo Pasolini,
prefazione di Antonio Piromalli al volume
Volgar'eloquio, di Pier Paolo Pasolini
Napoli, Athena, 1976 (p. 5 - 10)
Lacerazione tra natura e storia resa profonda dalla visione di un mondo borghese industriale che non ha mutamento, antitesi dialettica attiva di un mondo evangelico-contadino preindustriale sono i termini costanti della drammatica realtà contemporanea per Pasolini. Da essi si irradiano la demistificazione pasoliniana del non-moderno e non-civile neocapitalismo, l'ipotesi sempre più ostinata di rapporti umani nel quadro di una natura pur essa immutabile, la ricerca delle ragioni essenziali di vita al di fuori dell'ambito letterario (con la polemica contro il neotradizionalismo, la neoavanguardia), la negazione attiva come vitalità (con la lotta contro l'omologazione dei linguaggi nazionali fatta dal capitalismo industriale), l'impossibilità di modificare il sistema, una sorta di fatalismo astorico, le regressioni e il ritorno alle mitologie etc.
L'avvento del neocapitalismo negli ultimi anni Cinquanta genera in Pasolini una crisi profonda. Negli Scritti corsari (1975) è la denuncia della rivoluzione antropologica originata dal potere consumistico transnazionale, della cultura di massa direttamente legata al consumo, della sostituzione della cultura interclassista a quella di classe, dell'adozione esistenziale di nuovi valori consumistici violentatori delle coscienze da parte dei ceti medi, della fine della religiosità della campagna, del crollo del potere della Chiesa per opera del consumismo, della libertà sessuale ufficiale in funzione dell'edonismo, della nuova strada intrapresa dai nemici del popolo (Cia , DC, Rusconi, Monti etc.), del nuovo fascismo più pericoloso del primo etc.
Pasolini spesso parlava per paradossi al fine di fare scoppiare in modo potente e attivo le contraddizioni ma la sua visceralità si esprimeva in un quadro lucido, organico, animato dall'assolutizzazione, dal sentimento tragico, dalla sofferenza personale («Non gioco su due tavoli (quello della vita e quello della sociologia)»). La sua visione del consumismo era quella di un «cataclisma antropologico» che accentuava in lui intellettuale la «forza centrifuga eretica», la disperazione attiva («i disgraziati come me che vagolano disperati nella vita»; «non bisogna avere più paura (....) di avere un cuore») di lottare contro lo status quo, contro la falsa tolleranza distruggitrice, il falso laicismo, il falso razionalismo del potere consumistico e permissivo. Una lacerazione apocalittica cominciò «dieci anni fa», quando scomparvero le lucciole e con quel tempo umano caddero le virtù popolari contadine e religiose nonché la borghesia paleoindustriale di origine contadina, furono in breve tempo omologati popolo borghesia operai e sottoproletari, finirono le minoranze e le diversità, i modelli di felicità e il sorriso, le culture particolari e reali, l'espressività della lingua (impoveritasi e diventata tecnicistica e funzional-comunicativa). Da questa lacerazione derivano i rimpianti di Pasolini dell'immenso universo contadino e operaio preSviluppo, del mondo antropologico della povertà che sentiva sacra la vita umana, la fuga dal totalismo consumistico repressivo nella vita prenazionale preindustriale del Terzo Mondo, l'amore per la realistica e rivoluzionaria metapolitica di Marco Pannella, l'esortazione a ritrovare il sentimento della propria vita e di quella degli altri (la cui mancanza favorisce le stragi politiche) e a non ridursi a «polli di allevamento» come gli Italiani i quali hanno accettato la sacralità della merce e del consumo; Pasolini insiste anche sull'accusa di irreligiosità al cittadino fascista e a quello antifascista che vengono omologati dal nuovo vero più brutale fascismo, sulla necessità morale - nel dramma apocalittico - di una espiazione collettiva, sul ripudio del rimprovero di irrazionalismo in quanto difensore della sacralità della vita rivoltogli da Italo Calvino.
La disperazione della ragione, in realtà, spingeva Pasolini al dibattito pedagogico onnicomprensivo (non letterario, perciò, ma socioantropologico) sulle cose «a venire», sul cuore delle cose nuove, anche se con errori provocatori e irritanti, con ritorni lancinanti al passato. Non era gradito a molti il rimprovero contro l'antifascismo arcaico nella situazione presente (retorico sia nella protesta che nella celebrazione), contro il vero fascismo della società dei consumi, contro l'ibridismo del popolo che diventa piccola borghesia, contro la filosofia neoedonistica di Rusconi che sostituisce l’Italia-paese (rimasta intatta durante e dopo il fascismo), contro il sovvertimento delle culture popolari operato da emigrazioni e da dirigismo consumistico, contro il genocidio linguistico e la riduzione della capacità linguistica ad afasìa. Né gradite erano le accuse contro il cinismo e l'ambiguità della Chiesa che accetta la propria omologazione e si lascia ridurre a folklore o la constatazione radicale dell'invecchiamento dell'opera di don Milani per la caduta dei problemi suoi (la fine del sottoproletariato contadino alla stadio storico preindustriale). Pasolini stesso avvertiva con disperazione logica l'immane «universo orrendo» nemico e il «moralismo punitivo» che si muoveva contro di lui. Le tensioni accumulate nelle polemiche, le stesse polemiche contro la cattiva coscienza di singoli e di gruppi, contro l'insensibilità di politici e letterati nei confronti dello scandalo erano avvenimenti senza confronto nella vita italiana; ma nel dibattito di Pasolini sulla critica all'intera realtà e sugli effetti del vivere questa vita gli avversari o gli amici erano soliti allontanarsi dalle conseguenze estreme e dalle domande finali e prendere le distanze o tacere o meglio, come ha scritto Gianni Scalia, «correggere, integrare, equilibrare, neutralizzare, diplomatizzare, responsabilizzare» e considerare Pasolini «inquietante, sconcertante, intemperante, immediato, paradossale, irrealistico, allusivo, emotivo, imprudente, provocatorio». Pasolini poneva domande sull'intera realtà, chiedeva il diritto dell'eresia; gli rispondevano con piccolissimi temi di professionisti politici o culturali. «Sono più di due anni che cerco di spiegarli e di volgarizzarli questi perché. E sono finalmente indignato per il silenzio che mi ha sempre circondato... Nessuno è intervenuto ad aiutarmi ad andare avanti - diceva Pasolini - e ad approfondire i miei tentativi di spiegazione». Un giovane goriziano che ricorderemo più avanti, il Michelstaedter, il quale non accettava le soluzioni preparate («Io so che non ho da attendermi niente da nessuno; perciò non ho niente da temere nella vita, niente mi può cambiare, niente mi può fermare») e rifiutava la retorica dell'ottimismo, aveva scritto nella prefazione (omessa nell'opera definitiva) a La persuasione e la retorica:
«Eppure quanto io dico è stato detto tante volte e con tale forza che pare impossibile che il mondo abbia ancor continuato ogni volta dopo che erano suonate quelle parole. Lo dissero ai Greci Parmenide, Eraclito, Empedocle, ma Aristotele li trattò da naturalisti inesperti; lo disse Socrate, ma ci fabbricarono su quattro sistemi (...) Se io ora lo ripeto per quanto so e posso, poiché lo faccio così che non può divertir nessuno, né con dignità filosofica, né con concretezza artistica, ma da povero pedone che misura coi suoi passi il terreno, non pago l'entrata in nessuna delle categorie stabilite, né faccio precedente a nessuna nuova categoria».
Michelstaedter scopre l'inganno del progresso della borghesia; egli immagina di parlare a degli operai i quali in una dimostrazione contro la tirannide spagnola applaudono a un aeroplano che si trova a passare sopra la piazza in cui essi tenevano comizio. Egli reagisce contro l'entusiasmo e l'applauso degli operai i quali non capiscono che la «società borghese» li sfrutta in pace e in silenzio e li tiene soggiogati al bisogno senza spargere il loro sangue perché la borghesia delle nuove scoperte tecniche e dei consumi, dell'alienazione, mira a creare l'uomo sociale, un uomo dimidiato il quale non è capace di vincere i pericoli in quanto ormai si appoggia alla società che lo protegge in cambio del suo asservimento:
«Vi stringeranno in un cerchio di ferro e di fuoco, - dice Michelstaedter agli operai - senza pietà per gli schiavi che si ribellano. Voi sarete schiavi in eterno se non arriverete a smascherare la miserabile ipocrisia della potenza borghese, che copre di fiori le sue difese e nasconde in seno il pugnale (...). Fratelli, voi avete applaudito il simbolo della potenza che vi schiaccia. Ma vi scuoterete voi dalla vostra inerzia, v'unirete tutti ... »
L'uomo socializzato ad uso e consumo della borghesia è per Michelstaedter sotto tutela, non ha voce, deve camminare per il sentiero che gli è stato preparato, la sua vita è ridotta a godere della sicurezza di tutto ciò che l'ingegno umano ha accumulato. Nel futuro la sua vita sarà ridotta a convenzione, il danaro - il «mezzo attuale di comunicazione della violenza sociale» - diventerà un'astrazione, la lingua sarà apparenza assoluta, formata da luoghi comuni e termini tecnici, simbolo dell'addomesticamento degli uomini i quali «si suoneranno vicendevolmente come tastiera». La vita sarà la «medietà» che aveva affascinato l'anima sociale di Aristotele e gli uomini parleranno ancora ma senza dire nulla, come Crisotemide a cui Elettra dice: «Tutto ti è stato insegnato da quella, e niente dici da te stessa».
La trama oscura nella quale l'uomo nasce non ha in Pasolini il rilievo metafisico che ha in Michelstaedter ma nell'uno e nell'altro è la profonda esigenza di trasformare alla radice la società del capitale.