PREFAZIONE
La concezione politica che Guido Da Verona ebbe della realtà fu in ogni momento, quella della destra nazionalista. Egli aderì a interessi, tesi, movimenti che portarono al fascismo, quindi del fascismo volle essere intellettuale organico: vide nel regime un movimento sovversivo di natura piccolo-borghese in cui si esprimeva la rivolta antistatale di gruppi di ex combattenti che erano stati sconvolti dalla guerra e cercò di conquistare, come scrittore, quel pubblico piccolo-borghese che costituì la prima massa fascista. Ma col fascismo G. poteva esaltare anche l'individuo come eroe, superuomo che si distacca dalla massa e che si propone come esempio e modello. Infine, quando il fascismo era diventato ormai regime, G. propose al capo del governo un progetto di fascismo internazionale privo di qualsiasi apertura sociale.
La concezione sociale di G. era fondata sull'individualismo, sul disprezzo delle plebi e sull'antisocialismo. In G. si consumava tutta un'epoca, quella del decadentismo, del dannunzianesimo e lo scrittore, nel tentativo di drammatizzare e liricizzare i suoi temi, giungeva a uno stile parossistico: intonava il paulo maiora dell'erotismo, dell'esotismo, del mortuario, dello splendido; transatlantici, treni di lusso, locali notturni, roulette, abbigliamenti sontuosi, etc. diventavano motivi della sua narrativa; la liricizzazione estetizzante ed esteriore toccava l'acme quando G. descriveva i personaggi creatori di devastazioni, di disastri.
Il successo di G. come scrittore cominciò durante la prima guerra mondiale, con Mimi Bluette; fra il '20 e il '30 fu lo scrittore più letto d'Italia da un pubblico che era educato dallo scrittore a evitare la cultura, a crearsi entusiasmi infantili, a leggere pagine cantanti (il romanzo-canzone), a non sceverare criticamente la realtà e i problemi. Nelle pagine di G. il lettore trovava tutto ciò che era di moda in quegli anni nella psicologia dei ceti medi inferiori: la liricità melodrammatica, l'ardore vitale di passione, l'assaporamento del piacere, la fatalità e la perdizione.
Con la guerra era finito il vecchio mondo prussiano e umbertino, dell'onore di casta, degli ufficiali di sangue blu, etc. ma G. ricreò i mostri sacri del passato e, sotto la dittatura, risuscitò il fascino defunto di comportamenti, di abiti, di voci, di gesti, di miti magici, di narcisismo, di atmosfere teatrali. Trovò un largo pubblico con la larga grande capacità divulgativa dell'autore di melodrammi (vecchio strumento, vecchia dolciura italiana): mescolò ingredienti esotici, motivi pseudo lirici e pseudo drammatici, elementi del costume di vita del tempo quali il tango, il music-hall, il ballroom dancing americani.
Del decadentismo italiano sono stati studiati attentamente i miti degli intellettuali, la consapevolezza storica della conoscenza parziale che gli intellettuali avevano della società, la tendenza della cultura a porsi come universalità separata, staccata dalla società (e alternativa ad essa), la contraddizione tra il ruolo assegnato agli intellettuali dallo sviluppo capitalistico e la coscienza del loro essere sociali. Attraverso un caso documentario, come quello di G., è possibile studiare nodi e grovigli della cultura, di coloro che in essa operavano, in rapporto con la società del tempo. Fin dai primi anni G. si alimentò dei miti necessari alla borghesia imperialistica per espandersi, credette al ruolo egemonico dell'intellettuale borghese, esaltò Bava Beccaris e il colonialismo, scrisse contro le libertà democratiche, contro il socialismo e i lavoratori. Più tardi si esaltò da se stesso come superuomo e avventuriero finché la crisi del suo ruolo effettivo quale intellettuale lo portò al giullarismo: in tale atteggiamento erano le contraddizioni dello sviluppo capitalistico tra le nuove funzioni che la società borghese assegnava all'intellettuale e le antiche certezze, cioè la fondamentale contraddizione « fra il modo sociale di essere degli intellettuali e la coscienza del loro essere sociale » (Carlo Salinari).
G. cercò di difendersi contro la degradazione del ruolo di intellettuale e agitò una sua ribellione contro la letteratura classica e arcadica, contro il Manzoni, contro la morale media e comune, contro la famiglia borghese. Ma la ribellione di G. non toccava, ad esempio, la famiglia borghese in quanto funzionale al sistema capitalistico borghese di produzione e di dominio; l'agitazione era in funzione del superuomo, della superdonna, di personaggi di classe, e non dell'emancipazione; il rivoluzionarismo era in favore del D'Annunzio bellifero e aristocratico, del fascismo antiproletario e antisocialista.
Lo pseudorivoluzionarismo trascinò con sé vecchi miti ottocenteschi, ritardati e gonfiati, liricizzati, ridotti a cascami: era il kitsch, per G. il nuovo lirismo. Su questa strada avvenne l'incontro con quel pubblico con il quale si incontrava il fascismo da operetta, che nascondeva problemi e crisi con parate, enfasi e deliri. G. avvolse i suoi lettori nel fumo delle avventure erotiche ed esotiche e diede l'immagine di una realtà disorganica, di un uomo disorganico, della casualità, della disgregazione (nei romanzi-canzoni dominano le atmosfere di ieri-sempre-mai, morte, suicidio, omicidio, etc.), della mancanza di identità. Il momento di maggiore coscienza del proprio essere sociale fu per G. quando il fascismo gli tolse ogni precedente positiva certezza e volle costringere lo scrittore sotto il solo proprio segno. La costrizione fu tale che lo scrittore dovette passare attraverso le maglie della censura con la satira ma le maglie si strinsero sempre più — con il razzismo — e convinsero G. che non c'era più posto per un intellettuale che volesse essere uomo, che tutto era finito.
Questo nostro studio tende a individuare sociologicamente gli aspetti della conoscenza parziale della realtà che il lavoro intellettuale produceva nell'ambito dei rapporti sociali esistenti e i modi in cui l'attività letteraria di G. si collega con la crisi del ruolo dell'intellettuale. I rilievi sociologici mettono in luce la grande capacità artigianale di G., la varietà e ricchezza dei mezzi di officina consapevolmente usati dal punto di vista ideologico dallo scrittore, appunto per fare presa su quel pubblico. La critica dell'ideologia è un momento essenziale dell'analisi marxista quando il riferimento ai modi di produzione, ai rapporti di classe non è casuale e si aggancia a situazioni concrete, storico-sociali. Tale critica evita anche il pericolo che gli elementi mitici — consumati storicamente — decadano a tradizione o operino negativamente sul presente e consente di conservare i motivi che si sono incontrati con la realtà storica contemporanea.
Roma, 7 gennaio 1975 - A.P.